EDITORIALE L'ARCO DI GIANO n° 53 - 2007

           
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Arco di Giano

 

 

Modelli di corpo

N° 53 - autunno 2007


Il presente numero de L’Arco di Giano è incentrato su un tema suggestivo e di grande attualità. Inoltre è un numero fortemente polifonico o, se si preferisce, decisamente interdisciplinare. Infatti raccoglie i contributi di giuristi e di storici dell’arte, di chirurghi estetici e di sociologi, di semiotici e di psicologi clinici e della salute, nonché di medici e di storici della moda.
In un suo bel saggio della metà degli anni Novanta Ted Polhemus, autore di studi sui movimenti e sugli street-styles, ha osservato quanto segue: “Siamo l’unica creatura che cambia intenzionalmente il proprio aspetto. Il leopardo non può cambiare le proprie macchie e mentre il camaleonte può mutare colore, non si chiede però ogni mattina: “Di che colore vorrei essere oggi?”. Certamente tutti gli esseri umani sono condizionati a tali scelte da realtà sociali e culturali, ma ciò non nega delle determinanti non biologiche, non genetiche dell’aspetto dell’Homo sapiens”.
Il sociologo Pierre Bourdieu, da parte sua, ha affermato che il corpo anche “in ciò che ha di più naturale in apparenza, cioè nelle dimensioni della sua conformazione visibile (volume, statura, peso, ecc.) è un prodotto sociale”. E questa affermazione ha palesato la sua profonda verità quando, negli ultimi decenni del Novecento, il corpo ha finito con l’integrarsi perfettamente nella cultura del consumo ed è stato letteralmente cannibalizzato dalla moda.
Di fatto, la moda è, per sua natura, totalizzante ed onnivora e ad essa non è sfuggito neppure un centimetro quadrato del nostro corpo. È la moda che determina i canoni della bellezza e che, quindi, fissa la silhouette dei corpi tanto degli uomini quanto delle donne. Nel corso del Novecento, scrive nel suo saggio Sofia Gnoli, si sono succedute nella silhouette della donna innumerevoli variazioni: “dalla donna fiore stretta in busti schiaccia-ventre che ha aperto il secolo, alla filiforme garconne degli anni Venti, specchio dell’emancipazione femminile; dalla linea a sirena degli anni Trenta – fortemente influenzata dai modelli femminili proposti dal cinema hollywoodiano (Garbo, Dietrich, Crawford, etc.) – alla silhouette a clessidra tanto in voga negli anni Cinquanta, fino al corpo androgino e sottile tornato in voga negli anni Sessanta”. Come ha scritto Bernard Rudofsky nel volume The unfashionable human body “la nostra insoddisfazione per il corpo e per ciò che lo copre si esprime in mutamenti incessanti”.
In uno dei suoi aforismi più celebri Oscar Wilde afferma che per “essere totalmente medievali non bisognerebbe possedere un corpo, e per essere veramente moderni non bisognerebbe avere un’anima”. Se per l’uomo mediovale i digiuni avevano una valenza spirituale, servivano essenzialmente a modellare l’anima, le diete a cui si sottopose la classe media a partire dall’età tardo vittoriana avevano di contro una valenza essenzialmente secolare, dietro di loro c’era il desiderio molto terreno di modellare il proprio corpo.
Un tempo, ad esempio, per essere belli occorreva essere grassi e non possedere un corpo serpentino, avere cioè delle rotondità alla Rubens e non apparire delle postelegrafoniche denutrite. Nel suo saggio (Modelli di corpo nelle inserzioni pubblicitarie tra Otto e Novecento) Maria E. Filippi ci ricorda che alla fine dell’Ottocento il dr. A. Parker aveva immesso sul mercato un “apparecchio scientifico per signore di qualunque età, che garantiva ‘un seno turgido, rigido, eburneo, ideale (…), rotondità delle spalle, fermezza ed opulenza della gola, forma graziosa ed affascinante del petto e delle parti aderenti”. Il corpo di moda era allora quello che aveva forme abbondanti, mentre innaturali e ripugnanti erano i corpi ossuti, i corpi che facevano indovinare lo scheletro.
In questo numero si sono occupati dei nessi che intercorrono tra la moda e il corpo Patrizia Calefato (Sinestesie di moda) e Antonella Giannone (Maschilinità/femminilità: corpo e genere nella fotografia di moda). In particolare quest’ultima studiosa osserva che la moda contemporanea ha proposto “attraverso le sue immagini un’identità di genere eternamente cangiante, suggerendo così di poter essere ora maschili, ora femminili, ora sessualmente neutri ora invece marcati, indicando comunque la possibilità di poter scegliere il proprio genere sessuale, come si fa con gli abiti, conferendo così anche al corpo, il polo stabile rispetto all’abito, una dimensione mutevole e malleabile nella direzione voluta”.
Su quest’ultimo tema è intervenuto anche Mazzù (L’identità come stella polare nella traversata del deserto dal non essere all’essere). Egli sottolinea, infatti, come nella nostra società si sia ormai “in presenza di fenomeni che hanno revocato in dubbio la certezza di un’unica identità ad una stessa persona e della continuità giuridica e materiale della stessa persona”. In altre parole, l’identità non è più oggigiorno “un fattore statico, ma dinamico” dato che si è in presenza di un “allontanamento progressivo del normotipo sessuale binario (uomo o donna)”.
Nel suo saggio il sociologo dei consumi Vanni Codeluppi, riferendosi alle attuali società ipermoderne, parla di corpo-packaging, di corpo flusso, di corpo monadico che non ha né confini né identità. Di fatto, i corpi degli uomini e delle donne dei nostri tempi sono continuamente manipolati e deformati per essere adeguati a modelli esterni. Come i prodotti vengono resi luccicanti per gli scaffali dei negozi così i corpi vengono trasformati in involucri sfavillanti, vengono cioè vetrinizzati. Di fronte ai corpi perfetti, alle bellezze digitali della pubblicità uomini e donne, giovani e meno giovani finiscono col non sentirsi mai abbastanza belli/e e col trovarsi sempre dei difetti. Ecco, allora, che nella nostra società, non è un caso che “si stia diffondendo la cosiddetta ‘sindrome dismorfica’ ovvero l’abnorme preoccupazione per un elemento del proprio corpo, percepito come difetto”.
Sul tema corpo, sistema dei media, chirurgia, arte, intervengono da punti di vista diversissimi il chirurgo plastico Paolo Persichetti (Bellezza, verità e bisturi), il semiologo Paolo Peverini (Il corpo della star tra sguardo medico e videoclip) e la storica dell’arte Caterina Virdis Limentani (Nuovi modelli di bellezza). Secondo Persichetti, a causa della deriva individualistica e narcisistica che ha colpito la nostra società, la valenza esteriore e fisica viene ormai “comunemente considerata come la chiave di volta per il raggiungimento della piena realizzazione personale”.
In questo contesto il ricorso alla chirurgia plastica diviene ovviamente un fenomeno di massa che coinvolge sia i soggetti inferiori a quarant’anni (che cercano di migliorare un tratto corporeo giudicato non attraente) sia i soggetti di età superiore ai quarant’anni (che desiderano fermare il tempo o portare indietro le lancette del proprio orologio biologico). Le conclusioni a cui giunge il nostro autore sono le seguenti: “nel contesto di un completo relativismo morale, etico ed estetico, in cui la società propone modelli di bellezza stereotipata, artificiale e a volte insana, una proposta eticamente fondata potrebbe essere quella di ribaltare l’ottica della percezione del bello: non più l’affannosa e peraltro vana ricerca del bello in sé, bensì del bello per me, inteso non solo come esser bello per chi ci ama, ma anche far bello chi si ama, in un’ottica di responsabilità sociale al fine di giungere all’ideale classico che vede nel kalòs kai’ agathòs il modello di condotta per tutti”.
Da parte sua Peverini richiamandosi a due noti videoclip di celeberrime star musicali (Robbie Williams e Madonna) osserva che “da un lato la moda, diffondendo e rafforzando l’ideale di un corpo inarrivabile, si compromette con la chirurgia ma ne cancella scrupolosamente tutti gli indizi, dall’altro nei videoclip si fa strada una tendenza radicalmente opposta che consiste nell’ostentare sul corpo della star le tracce della manipolazione medica, nel denunciare le ipocrisie dei modelli di riferimento maschili e femminili, nel rivendicare la cicatrice come traccia della consapevolezza di sé come individuo e non come involucro, come packaging riproducibile in serie”.
Nel saggio Il corpo, i capelli e la calvizie Maria Vittoria Adelmann parte dalla constatazione che così come esiste un linguaggio dei vestiti esiste anche un linguaggio del corpo e, quindi, anche dei capelli. Nella nostra società ammalata di giovanilismo il modello di corpo dominante è quello che ha capelli sani, non bianchi né grigi e che, soprattutto, non è affetto da calvizie. Una testa calva non è affascinante né desiderabile, la calvizie non è di moda, non fa tendenza, non è vista come un’alternativa soddisfacente alle acconciature.
Ai corpi deformati da tutta una serie di disturbi dell’alimentazione (anoressia restrittiva, bulimia, binge eating, ecc.) sono dedicate le pagine di Umberta Telfener (Disturbi dell’alimentazione ipotesi esplicative e modalità di intervento: una panoramica). “Chiunque di noi – scrive l’autrice – apra un giornale incontrerà donne magre, emaciate, poco sexy, di solito molto giovani e dall’aria spesso infelice, con lo sguardo nel vuoto, che portano modelli di vestiti che cadono addosso su un corpo disincarnato (privo di carne ma anche disabitato dal proprio sé, pura proiezione dell’altro) quasi un simulacro, un fantasma, una stampella”.
Di fatto, l’anoressia, che sta coinvolgendo molti adolescenti e ultimamente anche donne mature e giovani maschi, è un disturbo tipico dell’Occidente ed ha a che fare con le relazioni familiari, con i rapporti di potere, con il perfezionismo, con la comunicazione. Il corpo anoressico, si è detto, è l’elogio della dis-identità ed una affermazione di indipendenza. “Possiamo parlare – scrive la Telfener – di ridefinizione dell’identità femminile (non produttiva e non materna in quanto infertile, non deduttiva in quanto pelle e ossa, non oggettivabile in quanto maschera di sofferenza, non relazionata col maschio in quanto malata anziché seducente)”.
A conclusione di questa sintetica presentazione dei saggi contenuti nel presente numero mi piace ricordare alcune riflessioni fatte da Francesco D’Agostino nel suo Immagini del corpo. Egli scrive che “come il volto che arrossisce parla, anche se non intenzionalmente, così continuamente parla il nostro corpo, sia intenzionalmente che non intenzionalmente e il rifiuto di farlo parlare può – almeno in alcune circostanze – essere una delle forme di autonegazione”. E al termine della sua articolata analisi egli conclude affermando che “questa realtà fisicamente così percepibile e ingombrante come la realtà corporea si rileva molto più evanescente e difficile ad afferrare di quanto non sembrasse sulle prime”. Conclusione questa su cui concorderanno sicuramente molti lettori di queste pagine.

Massimo Baldini

 

 

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