EDITORIALE - L'ARCO DI GIANO n° 92/2017

           
INDICE EDITORIALE    

 

 

Patologie dell’identità

N° 92 - estate 2017


 

Nel 2015 una donna in Texas si è sposata con se stessa promettendosi amore, fedeltà, e di aiutarsi e onorarsi per tutta la vita. La notizia è ancora più sorprendente se si tiene conto del fatto che questo caso era già stato preceduto da un matrimonio analogo di una giovane di Taiwan nel 2010 e da quello di un’inglese nel 2014. E per quanto questi matrimoni non abbiano alcun valore legale, è pur vero che la rilevanza mediatica data agli eventi non possa che far riflettere su quale sia l’idea che nella post-modernità abbiamo di noi stessi e del nostro essere in relazione con gli altri, in una parola della nostra identità. Perché se è vero che l’identità è ciò che rende l’individuo unico e inconfondibile rispetto a se stesso e agli altri, a partire dal corpo - che è lo strumento mediante il quale entriamo nel mondo e ci relazioniamo con la realtà - è anche vero che essa è l’esito di un processo che si struttura all’interno di relazioni inter-individuali, familiari e sociali che permettono al soggetto di comprendere e realizzare in pienezza la propria identità.

Ciò premesso, cosa può accadere all’individuo che vive all’interno di un contesto sociale e culturale nel quale le dimensioni relazionali originarie per eccellenza - come il matrimonio, la maternità, la paternità e i rapporti sessuati nella famiglia - vengono pensate come dimensioni puramente autoreferenziali, riportabili solo all’individuo e alla propria soggettività? Come può soddisfare il suo bisogno di rispondere a quella domanda fondamentale che da sempre presiede al processo di ominizzazione di ogni essere umano: “chi sono io? Da dove vengo e dove vado?”.

Interpretazioni a volte ideologiche, a volte riduzionistiche (sia fisicistiche, sia empiriste-comportamentali) e costruttivistiche della soggettività umana tendono oggigiorno ad esaltare solo la dimensione autoreferenziale ed irrelata della soggettività, che è l’esito patologico dell’individualismo e che nasce dall’incapacità e dal rifiuto di relazionarsi con gli altri. Tali interpretazioni rendono l’uomo d’oggi un soggetto solo, in balìa di se stesso, incapace di confrontarsi con l’alterità, cioè con una realtà che, trascendendolo, lo renda consapevole di sé, delle proprie potenzialità e dei propri limiti.

Eppure, anche in un’era di post-identità, il bisogno insaziabile dell’uomo di comprendersi e di potersi narrare continua a tormentarlo, generando il bisogno di capire perché non possiamo essere autosufficienti e dobbiamo necessariamente affrontare il mondo, la realtà e gli altri.

Peraltro, come intuisce Bauman in un suo saggio sull’Identità nel mondo in via di globalizzazione, il “discorso sull’identità” può far riflettere in modo illuminante sullo stato attuale della nostra società e sulla direzione verso cui stanno andando alcune dinamiche relazionali fondamentali del nostro essere umani, di cui il discorso sull’identità è solo un sintomo: il sintomo di una trasformazione e della fatica esistenziale che essa porta con sé. Se è vero che la modernità si era specializzata nel rendere disponibile (vorhanden) - perché imperfetto e incompiuto - ciò che fino ad allora era apparso come immutabile (zuhanden) - inclusa la natura umana - tutto ciò che per millenni era stato concepito come un dato, nella post-modernità, si è trasformato in un “compito” che ogni uomo ed ogni donna sono chiamati a svolgere al meglio delle proprie capacità. Così, l’identità è diventata un “progetto di vita” in costante divenire, lasciato all’auto-costruzione, all’auto-trasformazione e all’auto-affermazione dell’individuo. In altre parole, è divenuta lo “sforzo” di “un soggetto nomade intimamente posseduto da una logica di mutamento” (S. Rodotà), condotto da quella che alcuni studiosi della nostra epoca hanno definito “una mente senza dimora".
Per questo forse - parafrasando un noto titolo di Norberto Bobbio - “l’età dell’identità” - quella in cui si sono moltiplicati gli studi su questo tema - è rispetto al passato un’età di crisi: crisi di un’identità inafferrabile, precaria, fragile. E pensare che l’espressione “crisi d’identità” venne coniata per la prima volta durante la seconda guerra mondiale per descrivere la condizione dei malati di mente che avevano perduto il senso di identità personale, di coerenza e di continuità storica (E. Erikson). Sentimenti che oggi sembrano perduti in maniera piuttosto diffusa.

Si pensi alla ormai nota espressione baumaniana di “identità liquida", che appare come un ossimoro e che, ovunque, viene utilizzata per descrivere la condizione della soggettività nella società post-moderna. All’interno dell’espressione, si percepisce uno spazio semantico di opposti, nel quale sia l’identità che la liquidità perdono le proprie qualità costitutive: se l’identità è ciò che permette di definire un ente, essa si piega alla liquidità, all’indeterminatezza, così come la liquidità si cristallizza nell’identità. Si genera così uno spiazzamento cognitivo, una sorta di paralisi intellettuale costituita dal carattere insolito dell’espressione, che rende inafferrabile e indefinibile il concetto di identità.

Come uscire da questa paralisi post-moderna, fatta di strumenti cognitivi che stanno conducendo l’uomo a de-costruire l’immagine di sé? Tanto più, se si considera che sebbene l’identità sia la questione centrale e fondamentale del soggetto umano, tuttavia essa non è un concetto specifico, riducibile all’oggetto di un’unica disciplina. Non lo è né per la psicanalisi, che piuttosto si occupa del concetto di identificazione, così come non lo è per la bioetica, la biogiuridica e la filosofia, che piuttosto si occupano di volta in volta di alcune declinazioni dell’identità e delle loro implicazioni, come l’identità biologica, l’identità somatica e quella prenatale, le possibilità di potenziamento dell’identità umana, l’identità incestuosa, materna, paterna e l’identità sadica, capace di oggettualizzare l’alterità. Quelle, cioè, che hanno a che fare con il nostro sé incarnato, che oggi, tra sfide inedite di tipo culturale, giuridico e sociale, deve cercare di strutturarsi attraverso legami familiari fragili e frammentati.

È forse per questo che il giurista attento, oggi, non può non intravedere nelle dinamiche sociali identitarie delle patologie, che sono in realtà patologie relazionali, che si generano dal pensare la persona come “individuo puro", libero da posizioni, ruoli o definizioni comuni e comunicabili, sciolto dai lacci delle distinzioni e dei confini. Il caso di cronaca della donna single che in Texas si è sposata con se stessa ne è una manifestazione caricaturale.

Tuttavia, come ogni patologia, anche le patologie identitarie lasciano intravedere ipotesi di terapia filosofica. Se è vero, infatti, che la non-descrivibilità di una categoria o di una realtà non è sufficiente a fondarne l’inesistenza, deve pur esserci la possibilità di immaginare dei percorsi teoretici che, a partire dalla realtà relata dell’uomo - come soggetto in-carnato - possano risanare le diverse e molteplici manifestazioni dell’identità negata, ossia delle non-identità. D’altronde, la post-modernità fa sembrare evidente e facilmente accessibile l’identità, a patto che sia scelta e che l’uomo non guardi se stesso.

Dunque, una via d’uscita potrebbe venire dalla riflessione giusfilosofica, che a partire dalla realtà, può farci abbandonare quella forma di “pensiero irrelato” che genera modelli disgregativi della soggettività. Quale regola della relazionalità, infatti, il diritto può manifestarsi come forma capace di distogliere l’individuo dalla propria autoreferenzialità, consentendogli di acquisire un’identità compiuta e di andare incontro all’Altro, in una reciprocità nella quale identità genera identità: senza paura della propria fragilità, della propria dipendenza costitutiva dai legami originari che ci hanno generato e con la consapevolezza di avere sempre bisogno degli altri. Con questo auspicio offriamo ai lettori il presente fascicolo nella speranza che possa generare riflessioni capaci di restituire speranza ai cuori e qualche certezza alla società.

Gabriella Gambino

 

 

 

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