EDITORIALE L'ARCO DI GIANO n° 83 - 2015

           
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Chi soffre per l’Alzheimer

N° 83 - primavera 2015


 
La demenza e la sofferenza. Appunti introduttivi

di Angelo Bianchetti e Marco Trabucchi




Un’introduzione metodologica
C’è dolore nella demenza? È un interrogativo per lungo tempo al centro di studi e ricerche. Ma cosa sottintende l’interrogativo se ci sia o meno dolore nella demenza? Forse che la persona colpita dalla malattia è miracolosamente preservata dal dolore fisico, come qualche studioso superficiale ha supposto nel recente passato? O che la persona non comprende la propria situazione e quindi nemmeno soffre per la perdita della mente? Oppure ci si interroga sul dolore che la malattia diffonde nelle famiglie e nelle collettività ed anche sulle ricadute della sofferenza della persona ammalata su chi la deve curare?
Questa introduzione al dossier dell’Arco di Giano “Chi soffre per l’Alzheimer” non si propone di rispondere a tutti i possibili interrogativi attorno a questo tema, ma solo ricercare indicazioni che nel loro insieme possano contribuire a costruire interventi mirati di cura e quindi a rendere meno oscura la vita di tantissimi concittadini colpiti da una malattia che sconvolge la vita loro e quella delle persone che li aiutano.
La sofferenza umana in tutte le sue espressioni è un mistero; nonostante secoli di studi, resta un punto oscuro nell’esperienza della vita, sia dal punto di vista filosofico sia clinico. Anche dal punto di vista religioso rappresenta un momento di difficile comprensione nel rapporto della persona con il suo Dio. L’atto di cura del dolore si compie quindi in uno scenario spesso oscuro; nondimeno chi ha la responsabilità terapeutiche deve imporsi il compito di trovare le strade migliori per lenire la sofferenza, anche se deve fermarsi sulla soglia di una comprensione profonda e limitarsi solo ad atti immediatamente efficaci. Un comportamento non semplice, né facile, ma per il medico e le altre persone dedite all’assistenza non è possibile sottrarsi a questo dovere, pena la rinuncia alla funzione principale di chi svolge una professione di cura.
La vecchiaia, in particolare, rappresenta un tempo nel quale la sofferenza della psiche e del corpo assumono un peso ed una valenza peculiari; la vita lunga nasconde segreti non sempre decifrabili e non sempre gestibili dalla medicina. Ma chi è l’alleato più fedele e sicuro del vecchio fragile se non il suo medico?
La persona affetta da demenza rappresenta un obiettivo particolare nell’ambito dei vari approcci alla cura del dolore, perché la specificità della condizione rende difficile capire il significato del dolore stesso, identificare le modalità più precise per leggerlo nel singolo individuo, delineare un approccio terapeutico, stabile una modalità di comunicazione efficace, comprenderne le ricadute sull’ambiente di vita (Rozzini et al, 2015).
L’interpretazione del dolore di chi è affetto da demenza deve fondarsi anche sulla ricerca di una definizione del significato dell’essere persona nelle diverse fasi della malattia. La demenza come sindrome (pur con differenze nelle varie forme di malattia, dalla più comune malattia di Alzheimer alle forme più rare, come le demenze frontotemporali o la malattia a corpi di Lewy) presenta infatti espressioni cliniche ed elementi cognitivo-comportamentali alquanto differenti nelle varie fasi della malattia che può avere una durata lunga (generalmente oltre 6-10 anni dall’esordio dei primi segni clinici). Il primo sintomo della demenza è generalmente una lieve perdita della memoria, che, in particolare nell’AD, progredisce gradualmente. Nelle fasi iniziali la perdita della memoria tende ad essere più marcata per gli eventi recenti; il paziente diviene ripetitivo, tende a perdersi in ambienti nuovi, dimentica gli impegni, può essere disorientato nel tempo. In questa fase è generalmente conservata la consapevolezza di malattia e il paziente può riferire i suoi disturbi e spesso manifestare in modo diretto il proprio disagio e la propria sofferenza. Sono frequenti in questa fase di malattia le reazioni depressive. Con l’avanzare della malattia anche la memoria remota viene invariabilmente persa e per il paziente diviene complesso riconoscere i luoghi e le persone; si impoveriscono anche le altre funzioni cognitive e si manifestano difficoltà nello svolgimento delle usuali attività. Si manifestano labilità emotiva e mutamento della personalità, spesso compare apatia e viene perso l’interesse per l’ambiente e per gli altri. In questa fase si può osservare una accentuazione dei caratteri premorbosi della personalità, quali atteggiamenti ossessivi o compulsivi, aggressività, paranoia. In altri casi vi è invece un mutamento della personalità, per cui soggetti solitamente controllati e misurati diventano impulsivi, intrattabili ed a volte anche violenti. La consapevolezza della malattia e dei deficit si affievolisce e spesso il paziente non si rende conto delle sue difficoltà e delle modificazioni del comportamento; questo provoca difficoltà nelle relazioni familiari. In realtà in molti casi è proprio il comportamento del paziente il segno del suo disagio che il soggetto non riesce ad esprimere pienamente ed in modo consapevole (Conde-Sala et al, 2013).
In una fase successiva della malattia il paziente diviene incapace di apprendere nuove informazioni, spesso si perde, anche in ambienti a lui familiari. La memoria remota è compromessa, anche se non totalmente persa. Il paziente è a rischio di cadute, può richiedere assistenza nelle attività di base della vita quotidiana; generalmente è in grado di deambulare autonomamente. Il comportamento diviene ulteriormente compromesso; in questa fase la lettura delle modalità di relazionarsi all’ambiente e ai familiari è fondamentale per comprendere il disagio del paziente.
Nelle fasi avanzate della demenza la persona è incapace di svolgere qualsiasi attività della vita quotidiana, compare generalmente incontinenza. La memoria a breve e lungo termine è totalmente persa ed il paziente può divenire mutacico ed acinetico. Si manifesta disfagia e può essere necessaria l’alimentazione artificiale (generalmente con sondino naso-gastrico). Nelle fasi terminali della demenza sono frequenti complicanze infettive, soprattutto broncopolmonari, che costituiscono la causa più frequente di morte (Mitchell, 2015).
È importante considerare che vi è una presenza psichica significativa anche quando è nascosta dietro l’apparente incapacità comunicativa e intellettuale tipica delle fasi avanzate della malattia. Infatti, la dimostrazione di un sentimento di piacere e di gioia di fronte a particolari condizioni della vita indirettamente conferma come il dolore e la sofferenza siano a loro volta sentimenti “attivi”, non condizioni più o meno obbligate che si accompagnano alla malattia. La dimostrazione di una vita possibile, colorata di chiari e di scuri, impone sia un’osservazione specifica, attraverso un’approfondita valutazione multidimensionale, sia interventi adeguati per rinforzare i momenti positivi e ridurre quelli negativi (Bianchetti e Trabucchi, 2015). È quindi necessario approfondire l’identità, le capacità, le preferenze, i valori della vita, l’autopercezione e la consapevolezza della malattia al fine di costruire per il paziente una condizione che faccia crescere al massimo la “vita buona”, mai cancellata completamente dalla malattia. Ovviamente ciò richiede al medico (ed anche agli altri operatori professionali) una forte capacità di approfondire le dinamiche del paziente, senza pregiudizi, ma cercando di affinare ogni giorno l’ascolto e la comprensione empatica.
La sofferenza del corpo e della mente, in particolare quando colpisce le persone fragili, richiede un approccio fondato sul criterio della complessità. È finito il tempo dell’onniscienza; questa affermazione può essere considerata la base teorica di una pratica clinica che si confronta con l’enorme molteplicità del reale; il caso, la singolarità, la temporalità, la non prevedibilità, le interazioni inattese fanno in modo che ogni caso clinico sia quello solo, dipenda dal suo tempo e dalla sua storia (di malattia e delle relazioni), cambi frequentemente senza prevedibilità. Si potrebbe dire che la clinica contemporanea deve accettare “l’impermanenza delle evidenze” e quindi essere sempre pronta ad adattare le sue risposte. Il caso della sofferenza nelle demenze è un esempio della continua instabilità del fenotipo, che impone da parte del curante un adattamento delle modalità di intervento, senza pregiudizi o modelli astratti. Ciò richiede un’elevata capacità psicologica e culturale; è però l’unica modalità per garantire il successo dell’intervento.
La copertina di Lancet dell’11 aprile 2015 riportava la seguente affermazione: “No matter how many primary trial data one has, and no matter how robust a meta-analysis is, ultimately the decision to give thrombolysis is one of clinical judgment, not absolute statistical certainty”.
Potrebbe sembrare un’affermazione acritica sulla centralità del giudizio del medico, quasi un atteggiamento di critica radicale alla medicina basata sull’evidenza che rappresentava il massimo del progresso teorico e pratico fino a qualche tempo fa. È invece la base di una nuova prospettiva culturale, che si va diffondendo progressivamente, che costruisce l’atto di cura sulla “knowledge based medicine”, in grado di collegare la scienza più innovativa (precision medicine) e i risultati dei trial randomizzati e controllati (che conservano un importantissimo ruolo, nonostante le giuste considerazioni critiche condotte recentemente) con il mondo reale, la relazione con il paziente (la narrative medicine) e l’esperienza del medico (Ziegelstein, 2015). Il termine “conoscenza” racchiude le diverse prospettive con le quali ci si avvicina alla persona che soffre; è una parola nobile, perché riconosce la complessità del reale e quindi il compito alto di chi deve curare. Riconosce allo stesso tempo il ruolo irrinunciabile delle diverse fonti che costituiscono nel loro insieme la prassi di cura. Sarà compito di studiosi e ricercatori nei prossimi anni costruire un modello che possa “mettere in serie” i dati che originano dai diversi approcci sopraindicati; compito non facile, ma che potrebbe costituire un vero “rinascimento” della medicina, perché collega le arti e le scienze, l’umanesimo con il dato oggettivo, la cura del singolo con la responsabilità collettiva.


Alzheimer e dolore
La demenza, in particolare quella di Alzheimer, rappresenta un insieme di eventi che la scienza non ha saputo ancora decifrare appieno. Il punto di riferimento più realistico è quello del presidente Obama, che nel 2012 ha affermato di attendersi una conoscenza dei meccanismi ed una terapia per l’Alzheimer nel 2025. Pur augurandoci che questa previsione possa essere superata dagli eventi, il dato indica quanta strada si debba compiere ancora per arrivare alla comprensione delle dinamiche biologiche e cliniche che accompagnano la malattia (che peraltro secondo alcuni rappresenta un agglomerato di diverse patologie!). Il dolore della persona affetta da demenza risente di questa difficoltà; è un evento all’interno di una malattia “difficile”; in questa prospettiva vanno lette le considerazioni che seguono, per evitare interpretazioni aprioristicamente negative (Trabucchi et al, 2012). Si deve in particolare considerare che la ricerca preclinica e soprattutto clinica hanno per molto tempo escluso dagli studi le persone affette da un disturbo cognitivo; non deve quindi impressionare il fatto che manchino tante informazioni che sarebbero necessarie anche nel campo della diagnosi e della terapia del dolore. L’enorme quantità di studi compiuti per caratterizzare la lesione che principalmente colpisce la persona affetta da demenza, cioè l’accumulo di âamiloide, dice ben poco rispetto alla compromissione dei centri dell’encefalo dove viene elaborata la sensazione dolorosa e dove viene costruire la risposta analgesica. Peraltro le ricerche recenti mettono in dubbio la centralità di questa lesione come fondamento della malattia, della quale potrebbe rappresentare solo un epifenomeno, per quanto importante, anche se risultati definitivi a questo proposito non sono ancora stati raggiunti. La crisi attuale dell’ipotesi patogenetica si riflette certamente anche sulle prospettive terapeutiche fondate sulla possibilità di eliminare o ridurre la presenza di aggregati di amiloide nell’encefalo; pur non essendo questa la sede per affrontare la tematica, si richiama l’importanza di esaminare con lucidità l’attuale crisi di modelli interpretativi, per evitare che tutti gli ambiti della cura delle demenze entrino in una zona d’ombra (Zanetti E, 2013). Le stesse difficoltà sono state incontrate anche per le altre demenze (vascolare, fronto-temporale, associata al morbo di Parkinson, ecc), i cui meccanismi patogenetici sono ancora da chiarire e quindi non disponiamo delle informazioni che sarebbero necessarie per comprendere il rapporto con i meccanismi che inducono dolore.
Chi è il paziente affetto da demenza che ha bisogno di cure? A questa domanda si può oggi rispondere con l’invito ad analizzare le differenze indotte dalla genetica, dall’ampiezza delle modificazioni anatomopatologiche, dalla storia di malattia, dalla fenomenologia dei sintomi, dai trattamenti farmacologici, dai supporti ricevuti, dalle perdite subite... Anche sotto l’apparente omogeneità umana indotta dalla perdita della memoria e dagli altri sintomi della neurodegerazione, continuano a svilupparsi le specificità proprie di una personalizzazione da comprendere e rispettare. Una realtà così multiforme deve essere quindi affrontata con la logica di compiere “tante gigantesche piccole cose”; nell’impossibilità di affrontare e curare le macrodinamiche cliniche che caratterizzano la demenza, è necessario adottare un criterio che induca a compiere interventi negli ambiti dove è possibile raggiungere qualche risultato (l’autosufficienza e la capacità di adattamento, le patologie somatiche, i disturbi comportamentali, le dinamiche assistenziali e relazionali, ecc.), selezionando quelli dove la medicina e l’esperienza del medico giudicano esservi maggiori spazi per un intervento efficace. Sebbene nella demenza il destino della persona è il declino progressivo delle prestazioni cognitive (e così sarà fino a quando avremo a disposizione farmaci realmente patogenetici) l’esperienza clinica ha dimostrato chiaramente come l’uso appropriato dei farmaci disponibili, una stimolazione adeguata sul piano cognitivo e funzionale (sia attraverso interventi formali che, in modo ancora più importante, creando un ambiente relazionale adeguato alle esigenze del paziente), l’attenzione alla problematiche somatiche è in grado di rallentare fortemente l’evoluzione della malattia garantendo in alcuni casi lunghi periodi di apparente stabilità (Bianchetti e Trabucchi, 2013). Proprio la prospettiva di interventi singoli, dai quali si vuole trarre un risultato clinicamente e umanamente rilevante, è importante porsi l’imperativo di combattere il dolore, perché si toglie dallo scenario degli interventi un evento che condiziona altri, limitando le possibilità di efficacia degli atti curativi.
In premessa, prima di affrontare singolarmente gli aspetti diversi per una cura del dolore, va riaffermata l’importanza che l’operatore si avvicini a questo problema senza pregiudizi che connotino di pessimismo gli atti di cura della persona colpita da demenza; nessuno si pone oggi l’obiettivo di eliminare la malattia una volta comparsa, ma ogni operatore deve adottare il criteri sopraindicati (l’attenzione alle “piccole cose”), ciascuna delle quali richiede cultura specifica, capacità tecniche, chiarezza negli obiettivi, una forte speranza. È necessario passare sempre all’azione, intervenendo attraverso l’attività fisica, un’alimentazione adeguata, il controllo dell’obesità, la sospensione del fumo, il controllo dei principali parametri biologici, l’attivazione psichica, ecc.; solo così si costruisce attorno alla persona ammalata un’atmosfera positiva, condizione indispensabile per una cura efficace, anche se non definitiva.
Altra importante premessa riguarda l’atteggiamento formale da assumere di fronte all’ammalato e ai suoi famigliari; è necessario evitare l’uso di qualsiasi parola o frase che dia una connotazione disperata, senza speranza, alla malattia. L’identità del malato non si cancella fino alla morte, qualsiasi sia il livello di compromissione cognitiva; questo atteggiamento è importante all’interno dell’equipe, perché connota il lavoro di una potenziale efficacia ed è importante per i caregiver, perché percepiscono che il loro impegno non è solo la disperata gestione di un fallimento.
Il dolore è uno dei problemi più frequenti dell’età avanzata, spesso sottostimato, sottovalutato e scarsamente riferito dall’anziano stesso, in quanto considerato un inevitabile fenomeno, intrinseco all’invecchiamento. Secondo vari studi epidemiologici la prevalenza di sintomatologia dolorosa nelle persone anziane varia dal 25 al 60% (la stessa variabilità testimonia la difficoltà nella raccolta del dato) (Rottenberg et al, 2015). Le patologie che più frequentemente causano dolore nella persona anziana (neoplasie, neuropatie, malattie osteoartromuscolari, ecc.) sono responsabili di una sintomatologia cronica e con notevole impatto funzionale (il livello di limitazione in persone anziane con dolore è simile a quella di individui senza dolore più vecchi di 2-3 decadi). Al dolore si associano ansia, insonnia, depressione, l’abbandono di attività importanti per il mantenimento delle funzioni cognitive e relazionali, con ritiro sociale e l’instaurarsi di un isolamento materiale e psicologico, la riduzione spesso della stessa autonomia. Il decadimento cognitivo rende più complesso per la persona il riconoscimento del dolore, il suo ricordo, la quantificazione precisa e riproducibile, la comunicazione spontanea e diretta; spesso la presenza di dolore è denunciata da segnali, come cambiamenti del comportamento e dell’espressione facciale, alterazioni neurovegetative, disturbi del sonno e dell’appetito, disturbi motori, vocalizzazioni. (van Dalen-Kok et al, 2015). Naturalmente queste affermazioni possono mutare in relazione al livello di gravità della demenza.


La cura della persona affetta da demenza
La rilevazione del sintomo dolore è un atto complesso, che si colloca nella prospettiva contemporanea di costruire ponti tra medicina basata sulle evidenze e medicina narrativa. Infatti i comuni metodi di rilevazione, basati sull’interrogazione del paziente, non possono essere applicati almeno a una larga parte delle persone affette da demenza. Al loro posto si devono adottare strumenti che rilevano parametri fisiologici (la pressione, la temperatura, ecc.) e linguaggi del corpo (pianto, lamenti, espressioni del viso, il massaggiarsi alcune parti, il ripiegarsi, ecc.). Sono disponibili strumenti standardizzati, la cui adozione è indispensabile in un servizio che si prende cura delle persone affette da demenza, ma che non sostituiscono la capacità del medico di comprendere una narrazione che si esplica attraverso forme non verbali (Bianchetti et al, 2001). La valutazione deve essere ripetuta nel tempo per riconoscere cambiamenti che possono essere correlati al dolore, per verificare successi e insuccessi della terapia e per riconoscere fattori diversi che provocano o aggravano i segni del dolore (agitazione, insonnia, depressione). Questa osservazione diretta, e con l’ausilio di specifiche scale, deve collocarsi dopo una raccolta accurata della storia clinica dell’individuo, per rilevare l’eventuale evoluzione di malattie croniche che nel loro percorso possono causare una sintomatologia dolorosa. La raccolta deve considerare con attenzione anche la storia dei trattamenti farmacologici, spesso complessa per il sovrapporsi di interventi terapeutici diversi e tra loro scollegati, ma importante per evitare effetti indesiderati, i rischi indotti dalle associazioni, ma soprattutto per conoscere quali farmaci si siano dimostrati efficaci nel corso della vita dell’individuo ammalato. Ovviamente queste considerazioni si devono adattare alla specificità delle condizioni, in particolare al livello di compromissione cognitiva; infatti molto diverso è l’approccio, sia sul piano anamnestico che obiettivo e terapeutico, in un individuo affetto da una demenza lieve o da una demenza in fase molto avanzata. In particolare alcuni studi hanno dimostrato che nelle fasi iniziali del decadimento cognitivo i pazienti lamentano un maggior numero di sintomi somatici, come se la persona tendesse a mascherare la propria situazione di disagio (vi è infatti insight per il disturbo cognitivo), presentando sintomi invalidanti ma socialmente più accettabili. In questi casi il dolore somatico è la spia di una sofferenza che ha una vasta risonanza sul piano psichico, talvolta sconfinante in una depressione. Con il progredire della malattia si riduce l’insight del paziente e allo stesso tempo si aggravano i disturbi di memoria; ciò porta ad una riduzione dei sintomi riferiti.
La presenza di dolore, che si accompagna ad evidenti, anche se spesso generiche, manifestazioni di disagio, in alcune situazioni rischia di aumentare le distanze tra il paziente e chi si prende cura di lui; a tal fine è necessaria una formazione dell’operatore, che rinforzi la sua adeguatezza psicologica di fronte alla sofferenza, evitando la frustrazione che può facilmente derivare dai fallimenti sul piano della cura. È importante la convinzione che il sintomo dolore non è un accompagnamento necessario della vita della persona affetta da demenza e che è possibile garantire un lenimento attraverso cure che prevedono livelli diversi di interventi farmacologici e non farmacologici (Corbett el al, 2014).
Nel rapporto con il paziente affetto da demenza è necessario rilevare le manifestazioni cliniche che possono comparire, quali ad esempio il delirium, alcuni disturbi comportamentali, un aggravamento della stessa compromissione cognitiva. Sono eventi frequenti, che aggravano la situazione clinica complessiva e la possibilità di gestione del paziente, in particolare se mantenuto al domicilio. Il delirium può presentarsi nella variante ipercinetica, più facile da rilevare, o con quella ipocinetica, che viene diagnosticata con maggiore difficoltà, ma che concorre anch’essa all’aggravamento complessivo della condizione clinica. A sua volta il delirium altera profondamente sul piano biologico e cliniche la condizione del paziente; anche la percezione del dolore ne viene profondamente modificata (Morandi et al, 2014).
Un area scarsamente studiata riguarda i riflessi che il dolore può avere sulla funzione cognitiva, sia di per se sia come conseguenza dei trattamenti instaurati; il fenomeno ha rilievo clinico in alcune fasi della malattia, quando le conseguenze sono più incisive sul piano del mantenimento dell’autonomia (si tratta evidentemente di una demenza lieve). In questi casi la prescrizione di un farmaco analgesico deve essere valutata considerando il rapporto costo-beneficio; però il lenimento del dolore deve essere sempre considerato un obiettivo primario. A questo proposito un momento particolarmente critico è rappresentato dalle fasi finali; sebbene si ritenga che talvolta la somministrazione di un analgesico in dosi adeguate potrebbe concorre a ridurre la durata della vita, studi recenti hanno confutato questa ipotesi. Il dovere di curare il dolore resta quindi un imperativo per il medico, anche nelle situazioni di particolare gravità di malattia, imperativo particolarmente forte quando è chiaro che la persona non puà più difendersi da sola.
Non esistono linee guida specifiche per la cura del dolore nella persona affetta da demenza; in particolare non vi sono indicazioni sull’uso degli oppioidi. Ciò si scontra con le difficoltà culturali che tuttora sopravvivono attorno all’uso di questi farmaci per i supposti pericoli di assuefazione e dipendenza. Si deve ricordare che nella persona affetta da demenza questi rischi praticamente non esistono, perché in buona parte dipendenti da fattori psicologici; peraltro, in molte condizioni sono l’unico approccio in grado di ottenere un risultato soddisfacente. Un’attenzione che deve realisticamente interessare il medico è la comparsa di stipsi, che a sua volta provoca disagio e dolore che il paziente non è in grado di riferire. L’adozione di adeguati trattamenti dietetici e farmacologici rende secondario anche questo aspetto, mentre la disattenzione può provocare conseguenze negative, mettendo in atto circoli viziosi (dolore-oppiacei-stipsi-nuovo dolore-agitazione-tranquillanti-dolore) e condizioni che peggiorano la qualità della vita della persona ammalata. D’altra parte, anche il trattamento con i più tradizionali (almeno nella prassi medica) farmaci antinfiammatori si scontra con la comparsa di effetti collaterali che possono essere gravi. Si devono quindi adottare procedure decisionali fortemente individualizzate, che richiedono un accurato follow up del paziente.


Il dolore nei vari luoghi di cura
Il dolore della persona affetta da demenza nei vari luoghi di cura rappresenta una problematica non secondaria, perché diversa è la sensibilità per il problema, diversa la logica assistenziale che governa un certo ambiente, diversa la preparazione tecnica degli operatori e diversa è la disponibilità di adeguati strumenti terapeutici. In premessa si ripete l’importanza che le persone affette da demenza possano godere di un accompagnamento clinico costante nelle varie fasi della malattia; ciò si realizza talvolta attraverso il lavoro delle Unità di Valutazione Geriatrica, ove queste abbiano disponibilità di tempo ed organizzative per rappresentare il punto di ancoraggio del paziente e della sua famiglia. Purtroppo ciò non avviene sempre; il fatto però non giustifica la rinuncia a creare un sistema organizzato che garantisca una copertura ininterrotta nel tempo della cura alla persona ammalata. L’attuale sistema delle UVA, per quanto criticabile, rappresenta una rete di supporto ad ammalati che altrimenti sarebbero affidati a personale sempre diverso, inadeguato a costruire modelli realistici ed efficaci di continuità assistenziale.
Una problematica particolare è rappresentata dall’ambiente ospedaliero, dove il paziente viene ricoverato per brevi periodi, e quindi è difficile che si instauri un rapporto in grado di dare attenzione alle sue più fini espressioni, come avviene nel caso del dolore. Ovviamente l’ammalato al momento dell’ingresso dovrebbe essere accompagnato da una relazione clinica che sottolinea l’inadeguatezza o l’incapacità di riferire un eventuale dolore e che quindi è necessario un atteggiamento proattivo da parte dei curanti (si pensi in particolare alla fase postoperatoria). Un’adeguata terapia del dolore in questi casi evita anche il ricorso alla sedazione o alla contenzione, pratiche che spesso sono la conseguenza diretta di un inadeguata comprensione della condizione clinica (Bianchetti et al, 2015).
Un altro momento delicato è rappresentato dal ricovero della persona ammalata in una struttura residenziale, sia in ambiti dedicati alle demenze, sia in ambiti non specifici. Recentemente sono stati condotti studi che hanno dimostrato la disponibilità del personale ad arricchire la propria formazione in questo campo e di conseguenza ad assumere atteggiamenti di cura corretti. Si deve sottolineare che talvolta l’ambiente di cura istituzionale nella sua cultura di fondo non è preparato ad accettare prospettive innovative, perché ancorato ad una visone custodialistica e normalizzante, che esclude a priori la possibilità di una comprensione del bisogno individuale e di risposte che non siano prevalentemente sedative. Anche se la strada è ancora lunga, vi sono notevoli segnali di progresso, soprattutto per una forte presa di coscienza da parte del personale infermieristico e di assistenza.
Infine nella rete di assistenza alle persone colpite da demenza e che soffrono di un dolore cronico grave si devono considerare gli hospice. Vi sono ancora discussioni in letteratura sull’opportunità di utilizzare queste strutture per soggetti con disturbo cognitivo nelle fasi terminali; il dibattito non è ancora concluso ed anche chi scrive non ha raggiunto un chiaro convincimento.
Un aspetto irrinunciabile per una cura adeguata è il lavoro di equipe, che dovrebbe sempre caratterizzare l’approccio a chi è affetto da demenza. Infatti la continuità dell’osservazione del paziente, come può essere garantita da un’equipe in grado di scambiarsi informazioni e di costruire un progetto di assistenza non puntiforme, è alla base di una cura che risponde adeguatamente al bisogno. Ciò richiede però una cultura omogenea da parte di tutti i componenti ed un coinvolgimento paritario nell’identificazione del dolore e delle sue cause, nonché nella valutazione dei risultati indotti dalle terapie.
Nella cura del dolore devono essere coinvolti anche le persone che più da vicino accompagnano la vita della persona affetta da demenza. I caregiver informali, siano essi legati da rapporti di parentela od economici, vivono “in simbiosi” con l’ammalato e sono i primi a cogliere eventuali modificazioni del comportamento giornaliero o notturno; devono quindi essere istruiti perché trasferiscano le loro informazioni al medico curante, evitando interventi farmacologici sedativi come risposta all’agitazione che il paziente talvolta presenta. In questi casi può essere sufficiente un’informazione trasmessa con pazienza e senza aggressività a convincere la persona addetta all’assistenza sull’importanza di rilevare il dolore; infatti il legame che si crea (anche con la “badante”, che pur non avendo legami di parentela spesso sviluppa legami di affezione) induce a porre al centro il benessere del paziente. Così si costruisce un rapporto forte anche con il medico, che si trasforma facilmente in appropriati atti di cura (sul piano analgesico, ma anche su quello della risposta clinicamente specifica all’evento che ha provocato la sintomatologia dolorosa). Il dolore è sempre pervasivo: investe la vita delle microcomunità, come la famiglia; la medicina ha il compito di occuparsi senza reticenze dell’insieme di queste dinamiche, condizione indispensabile per l’efficacia della cura della singola persona ammalata.
Un’attenzione particolare deve essere data al dolore psichico, cioè la depressione che colpisce la persona affetta da demenza. Si deve ricordare quanto sia difficile identificare le modalità attraverso le quali si esplicita il dolore della mente in chi apparentemente non è in grado di considerare un prima e un dopo nella propria vita. Quale può essere il vissuto di chi sente dentro di sè una profonda disperazione, un sentimento di assoluto abbandono, un vuoto più forte del vuoto? Nessuno può descrivere questi sentimenti, ma solo immaginarli, per sentire il dovere di identificare modalità di cura, anche se limitate a riprodurre i modelli adottati nelle persone cognitivamente competenti. Talvolta un’adeguata terapia farmacologica antidepressiva ottiene risultati significativi, con ricadute sia sul personale di assistenza sia sui famigliari, la cui prima preoccupazione è in ogni circostanza (e giustamente!) la certezza che l’ammalato non soffra (Bianchetti e Trabucchi, 2014). È compito del personale di assistenza cogliere questo atteggiamento e trasformarlo di atti di cura, la cui efficacia è discussa con il famigliare al fine di ridurne la preoccupazione e l’ansia, che a loro volta possono danneggiare un sereno rapporto di cura.


Il dolore e le condizioni vitali
“Il dolore fa entrare il tempo e lo spazio nel corpo”. La frase di Simone Weil illumina, come sanno fare solo i grandi pensatori, il rapporto tra il dolore e le condizioni della vita. Infatti queste sono in grado di modulare l’impatto dello spazio e del tempo sulla realtà della persona. E la condizione particolare della persona affetta da demenza rende ancor più diretto l’infrangersi delle condizioni esterne sulla vita. Si pensi alla solitudine e alla perdita dei supporti affettivi, alle povertà, alla collocazione in ambienti non accoglienti; sono condizioni che portano ad una maggiore fragilità dell’io, già compromesso dalla malattia. Portano anche ad una maggiore fragilità del sistema di supporto attorno al malato, perché il caregiving, formale e informale, è anch’esso sensibile a come la vita si svolge. Se mancano i tamponamenti, il dolore è sempre presente, senza soste e rende fragile la stessa capacità di dare supporto.
Un dolore è sempre nuovo per chi non ha memoria: è una sensazione senza storia, che certamente induce paura nella mente di chi non ricorda di esserne stato colpito in altre occasioni. Nessuna persona “normale” sarà mai in grado di descrivere questa sensazione; non per questo si deve rinunciare a collocarsi nella vita di chi ha perso la mente... per esprimere un sentimento di dolente comprensione, volta ad un impegno perché il dolore possa rapidamente essere cancellato.
Il medico e gli altri operatori possono affermare “I feel your pain”, perché è stata dimostrata una base biologica dell’empatia attraverso l’attività dei neuroni specchio. È di grande significato umano, oltre che clinico, “ipotizzare che la vista del viso altrui che esprime un’emozione attivi nell’osservatore gli stessi centri cerebrali che si attivano quando è lui stesso ad avere quella specifica reazione emotiva” (Rizzolatti e Sinigaglia, 2006). Peraltro, si potrebbe affermare che il medico dona al paziente che ha perso la mente la comprensione dall’esterno di un fenomeno che quest’ultimo non può comprendere dall’interno: è una condizione peculiare, la cui importanza clinica e nobiltà umana deve essere valorizzata.
Il lenimento del dolore è l’atto più importante e basilare di qualsiasi rapporto di cura, anche nelle situazioni umanamente più difficili (ma quando il dolore cronico non impone sofferenze molto pesanti alla vita?). La medicina deve quindi sentire l’obbligo di percorrere queste strade con sempre maggiori capacità e, a sua volta, è un obbligo della collettività fornirle strumenti adeguati per realizzare al meglio questa funzione.


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