EDITORIALE - L'ARCO DI GIANO n° 95/2018

           
INDICE EDITORIALE    

 

 

 

 

Il valore del tempo nell'orologio della salute
 

N° 95 - inverno 2018


 

“A lei che non ho conosciuto e non conoscerò,
al tempo speso e a quello mai vissuto.
Ai gesti, agli sguardi, alle emozioni muti
di chi si bagna di pioggia per nascondere il dolore e raccontare di lei.
Al tempo che verrà e vedrà l’arcobaleno che per lui è il suo sorriso”.
 
 
Marianna da oggi non c’è più. Dicevano che non ce l’avrebbe fatta e forse lei lo sapeva. Marianna ha visto passare i suoi batticuori, ha visto gli altri innamorarsi, costruirsi una vita, lei era alla finestra. Questo non vuol dire che non abbia lottato: si è laureata, ha trovato un lavoro che amava, ha creduto che finalmente il suo tempo sarebbe arrivato, ha segmentato attraverso la memoria brandelli di felicità che la cullavano quando credeva di non farcela. Perché Marianna pensava che quello non fosse il suo tempo, ma una nota stonata di una canzone bellissima.

Paola invece non l’ho mai conosciuta, se non nei gesti e nelle parole mute di chi l’ha amata, perché a volte il tempo di chi resta è intriso della vita di chi non c’è più, che non ha bisogno di essere raccontata, bastano pochi sguardi.

All’esame di maturità scientifica una delle domande a cui ho dovuto rispondere è stata: “il tempo come unità di misura in fisica”. Già il tempo.

È definito come “la dimensione nella quale si concepisce e si misura il trascorrere degli eventi. Esso induce la distinzione tra passato, presente e futuro”.  Eppure il tempo è così umano che sfugge al ticchettio dell’orologio perché soggetto alle dilazioni o ai restringimenti che ne alterano la percezione. Il tempo che non passa mai in una bradicardia, il tempo veloce di una tachicardia, di volti e baci rubati, di parole non dette, spiegazioni mai date, gioie improvvise, paure, coraggio, vittorie e sconfitte. Eppure il tempo è sempre uguale. Un’ora, 60 minuti, 360 secondi.

Fare la curatrice di una pubblicazione su “Il valore del tempo” mi fa sorridere. Io che sono sempre troppo in anticipo, raramente in ritardo, e che spesso con testarda incoscienza, vivo le attese di un tempo che invece semplicemente scorre, sono forse la persona meno adatta, ma più affascinata dal declinare un valore intrinseco, ritenuto ovvio, forse banale, del tempo. Più che curatrice, ho quindi deciso di spalancare i miei occhi curiosi di lettrice, per cogliere le declinazioni, anche quelle più umane, che il tempo può avere. Ho avuto voglia di ascoltare. Perché la malattia ha un tempo fragile e forte al contempo. Un tempo che viene da lontano, eppure embrionale, quello di chi decide di investire scienza, passione e risorse per seguire il sogno della cura. È un tempo, invece,  concitato e incerto, quello del medico che deve comunicare la diagnosi.

È un tempo oscuro, sospeso e immobile quello del novello paziente, che con una danza frenetica attraversa paura e coraggio, con domande che quasi mai hanno risposte certe.

È un tempo bulimico di informazione, e poco importa se siano corrette o meno, c’è bisogno di risposte immediate, di certezze quelle stesse che i medici non sempre possono dare e che la rete fornisce con un click.

C’è poi il tempo impotente e muto di chi ama, di chi si sente "colpevolmente" sano nel contesto della malattia dell’altro, tra inquietudine e parole mai dette, lettere scritte nella mente, lasciate ai pensieri, sostituite dal dover fare qualcosa a tutti i costi. E in questa frenesia del fare c’è la consapevolezza del non poter fare, c’è la fotografia del prima e una camera oscura impenetrabile del dopo.

C’è un tempo imbrigliato nella coperta corta della burocrazia e di un’economia instabile, tra liste di attesa e tempo perso, così come c’è quello guadagnato, quello regalato dalla ricerca, ma anche quello che si realizza quando si fa sistema, quando la gestione sanitaria funziona, quando il pubblico e il privato si intrecciano a favore del paziente.

C’è poi il tempo generoso quello di chi accoglie e ospita gratuitamente nel periodo più difficile pazienti e famiglie, accendendo un fiammifero di calore al buio della mobilità passiva.

Infine c’è il tempo dell’accettazione della malattia, del guardarsi allo specchio e  di scoprirsi diversi eppure sempre gli stessi, trovando la forza per fidarsi ed affidarsi a ciò che sarà, cambiando priorità e girando il proprio passato come fosse il cubo di Rubik, per trovare un ordine e un senso razionale al futuro.
Queste e tante altre riflessioni mi ha suscitato la lettura dei contributi degli autori che con generosità hanno realizzato questo volume. La speranza è che le loro parole giungano a chi avrà voglia di fare un viaggio nel tempo, l’unico che valga la pena di affrontare: quello della persona. Perché c’è il tempo vittorioso, sognato, urlato di chi è guarito, di chi ha contribuito a quella guarigione, così come quello di chi ha comunque imparato ad amare quel tempo, come Marianna, al di là di ogni esito, di chi ha il coraggio di fare scelte impopolari nella salute, di chi deve immaginare o ricostruire un futuro, consapevole che c’è sempre un tempo che verrà e che dipende da noi.

Sara Vinciguerra

 

 

 

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