EDITORIALE L'ARCO DI GIANO n° 61 - 2009

           
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Arco di Giano



Medical Education: luci ed ombre


N° 61 - autunno 2009


 

Verso un nuovo paradigma per la Medicina e le nuove esigenze nell’ambito della Medical Education

Questo numero della rivista L’Arco di Giano prova ad immaginare in che modo la pedagogia medica possa aiutare a comprendere e a gestire i cambiamenti più significativi del contesto culturale in cui viviamo, concentrandosi soprattutto su quelli che stanno gradatamente modificando il paradigma della medicina. I grandi temi della vita e della morte, della salute e della malattia, del benessere e del malessere sono sempre più presenti nel dibattito culturale e coinvolgono l’opinione pubblica, trascinandola sull’onda emotiva di fatti che hanno un grande impatto anche sulla quotidianità delle persone. Fino a pochi anni fa si occupavano di medicina solo medici e pazienti: i primi a titolo professionale, i secondi in modo più sporadico, a seconda dei bisogni che via via emergevano. Entrambi condizionati, sia pure a diverso titolo e con diverso grado di consapevolezza, dalle diverse istituzioni che governano la sanità, politica inclusa. Attualmente però il paradigma della medicina sembra essere diventato uno dei grandi organizzatori dell’opinione pubblica, su cui esercita un fascino crescente e del tutto particolare. Il tema della salute ha assunto oggi contorni sempre più dilatati che sembrano inglobare non solo gli stili di vita individuali, ma anche il modo con cui un’intera società s’interroga sul bene comune e sul benessere sociale; si pone davanti alla scienza e alla tecnica e affronta problematiche in cui welfare di vecchia e nuova concezione tentano risposte solo parzialmente soddisfacenti ed efficaci. Non è facile individuare in modo esauriente i fattori che più incidono sui cambiamenti legati alla nostra salute, anche perché sono in gran parte soggettivi e rimandano ad una rappresentazione mentale dello star bene a tutto tondo. Tutti sperimentiamo e percepiamo il ritmo alternativamente cadenzato e incalzante del nostro modo di reagire agli stimoli esterni e agli stimoli della nostra corporeità. Cogliamo gli alti e bassi della nostra emotività, ragioniamo con tono positivo davanti a potenziali difficoltà ma siamo inclini a prospettarci scenari angoscianti, se ci sentiamo più deboli e più fragili. A volte ci adattiamo con sorprendente naturalezza a situazioni che ci erano estranee fino a poco tempo prima, mentre altre volte non riusciamo a tradurre in atto una concreta possibilità di adattamento. Ci dicono che viviamo in un presente liquido, ma se a volte è possibile galleggiarvi pigramente, altre volte si sente tutto il rischio di affogare. E i segnali più sensibili vengono sempre dal nostro corpo, dalle antenne sottilissime che captano segnali molto deboli, amplificandoli ben prima che la nostra intelligenza e la nostra ragione sappiano dire da dove vengono, dove ci stanno conducendo e soprattutto che senso hanno.

Alla Medical Education sembra affidato il triplice compito di accogliere e comprendere il cambiamento, di aiutare a gestirlo nel modo più soddisfacente possibile, -a livello personale e sociale- e di implementare i livelli di salute e benessere, ancora una volta sia a livello personale che sociale, attraverso una progressiva capacità di assimilazione e di reazione. In questo numero della rivista alla prima parte, quella che tenta di fare un focus sul contesto sociale, è affidato il compito di riflettere sui processi di cambiamento culturale che maggiormente sfidano, fino a raggiungere una vera e propria soglia di provocazione, la visione classica della Medicina. Ne sono stati scelti tre, certamente non in modo casuale, ma ben sapendo che hanno solo un valore esemplificativo, mentre potrebbero essercene molti altri.

Il primo di questi processi di cambiamento, su cui riflette Laura Palazzani, ha un vero e proprio carattere rivoluzionario e segnala la pretesa di un contesto che chiede alla medicina di modificare il suo statuto, passando dallo status di una medicina che cura a quello di una medicina che gestisce il rifiuto delle cure. Il paziente che rifiuta le cure chiede al medico e alla medicina di elaborare nuovi protocolli, di ridisegnare una nuova ricerca e di creare nuovi tipi di diagnosi per sancire il suo rifiuto della vita, nel modo più rapido e meno doloroso. L’asse virtuoso che lega ogni medico alla vita e lo impegna in una lotta concreta nei confronti della malattia, da sempre suo nemico naturale, diventa oggi del tutto virtuale, perché al medico si chiede di allearsi con il rifiuto delle cure contro la vita dello stesso paziente, a cui va assicurata solo una morte dignitosa. Il paziente esercita il suo diritto di autodeterminazione chiedendo al medico una non-cura che ne acceleri la morte. Si tratta di una vera e propria rivoluzione. Il secondo processo preso in esame è caratterizzato da un ostinato rifiuto della malattia, che si fa strada nella opinione pubblica attraverso la pretesa del diritto a nascere sani, o -in alternativa- a non nascere affatto e nell’affermazione del diritto a morire quando si ritiene che la malattia condizioni a tal punto la qualità di vita, da non rendere più desiderabile il vivere. Il tema è affidato a Salvino Leone, che si guarda bene dal banalizzare il giusto desiderio di ogni genitore ad avere un figlio sano, ma smaschera anche una serie di contraddizioni della nostra cultura, che a parole si dice pienamente tollerante e accogliente nei confronti della diversità, ma poi nei fatti s’impegna a rimuoverla completamente. C’è un’eugenetica culturale che da un lato vorrebbe tutti sani e felici, ma dall’altro pensa di togliere la patente per vivere a quanti potenzialmente non sarebbero né sani né felici. La riflessione sulla medicina dei desideri accentua l’approccio utopistico con cui l’uomo di oggi guarda alla scienza e alla tecnica. Da un lato immagina una vera e propria onnipotenza tecnologica, che induce a rifiutare la morte come se fosse un vero e proprio fallimento, ma nello stesso tempo denuncia la pervasività tecnologica, quando la percepisce come ostile perché estranea alla vita che si vorrebbe. è la rivoluzione che negando la malattia fa del medico una sorta di sentinella che veglia non per curare la malattia ma per evitare che nascono malati.

E infine la riflessione di Mario Bertini, che attraverso un saggio di psicologia della salute raccoglie uno dei miti più amati del nostro tempo. Il mito del benessere e l’esperienza del malessere: vero e proprio paradosso nella nostra società, perché più si cerca di star bene più si percepisce la fragilità della propria condizione. La salute appare come un bene volatile in una società liquida, mentre il disagio assume le caratteristiche di uno status permanente da cui si fatica ad emergere. Non è una visione pessimistica, tutt’altro! Ma richiede una profonda autoeducazione a scoprire, ad apprezzare e a prendersi cura della propria condizione reale, valorizzandone di volta in volta la ricchezza di contenuti e di significati, senza proiettarla verso un orizzonte di desideri tanto remoti quanto irrealizzabili. La psicologia e la pedagogia di Mario Bertini vanno oltre una serie di stereotipi che trascurano il bene posseduto nella quotidianità, anche in termini di salute e di limiti della salute, per inseguire fantasie che distraggono dall’esperienza del presente, banalizzandola. L’esperienza del benessere perduto crea una profonda nostalgia verso uno stato di salute che va di volta in volta ricreato e riplasmato per poterne godere davvero.

Nella seconda parte di questo numero il focus è posto sul paziente: si cerca di cogliere il senso che assume oggi il nuovo protagonismo dei pazienti nel processo di cura. Il tema è affrontato con un taglio spiccatamente interdisciplinare, come si conviene ad uno dei problemi più complessi con cui debbono misurarsi diritto e politica, medicina e pedagogia, etica ed antropologia. L’incipit di questa seconda parte è a carico di Massimo di Giannantonio, che partendo da specifiche competenze di natura psicoterapeutica, riflette sul rapporto medico-paziente. In concreto ci si interroga su cosa stia cambiando nella loro relazione, dal momento che oggi i malati sono sempre più competenti e spesso arrivano al colloquio con il medico avendo già raccolto una abbondante documentazione sulla loro malattia. Ne conoscono i sintomi e li riconoscono in modo molto sofisticato anche nella propria esperienza clinica, hanno soppesato le diverse proposte terapeutiche, conoscono i migliori centri in cui si tratta la loro malattia e hanno un quadro abbastanza preciso della loro prognosi. Sembra che siano lì per soppesare il medico che hanno davanti, per valutarne il livello di aggiornamento, la capacità di argomentare le possibili opzioni, per poi essere loro a decidere, dettando in alcuni casi precise condizioni al medico. Quell’orientamento abbastanza di moda nelle scuole di management sanitario alcuni anni fa, che considerava obsoleti i termini di malato o di paziente, e preferiva quello di cliente, sembra aver raggiunto il suo obiettivo e il nuovo cliente sembra sapere esattamente cosa vuole e lo pretende con più o meno determinazione e convinzione. Se non si considera soddisfatto si limita a cambiare medico, struttura, città… Sono in molti oggi a pensare che questo processo, con le sue luci e le sue ombre, con la maggiore autonomia del paziente da un lato e con le nuove difficoltà del medico dall’altro, sia inscritto nell’articolo 32 della nostra Costituzione e Pietro Rescigno analizza a fondo il rapporto tra diritto alla salute e principio di autodeterminazione. I padri costituenti, consapevoli dei delitti contro l’uomo e contro l’umanità commessi da alcuni medici in epoca nazista, hanno previsto nella nostra Carta costituzionale il massimo rispetto possibile per la persona, considerando la salute un vero e proprio diritto da garantire a tutti. Un diritto individuale che è nello stesso tempo interesse di tutta la collettività, per cui merita cure gratuite, di cui lo Stato si impegna a farsi carico. Nell’esercizio di questo diritto l’uomo può e deve formulare le sue scelte per quanto attiene alle cure da ricevere, secondo un criterio di autodeterminazione. Il vero problema che oggi si pone è fino a che punto può spingersi il diritto alla scelta delle cure e se davvero come alcuni pretendono può giungere fino al rifiuto delle cure, incluse quelle salva-vita. Non c’è dubbio che la ratio della nostra Costituzione, e l’interpretazione che finora ne è stata data, esprima un vero e proprio favor vitae ed escluda radicalmente la prospettiva dell’eutanasia, sia pure di carattere omissivo. Il recente dibattito sulle dichiarazioni anticipate di trattamento ha indotto però alcuni a ritenere che il principio di autodeterminazione costituisca un assoluto, senza limiti e vincoli di alcun tipo. E che la Costituzione preveda questa interpretazione. Rescigno mostra la debolezza di questa interpretazione e restituisce alla libertà individuale tutta la responsabilità della presa in carico della propria vita. La Costituzione con l’articolo 32 riconosce all’uomo la sue personalissima e intrasferibile responsabilità di cura nei confronti di se stesso ed è solo in questo contento che si esercita la sua libertà di scelta in ordine alla tutela della sua vita. Se Rescigno affronta il problema da giurista con grande chiarezza e con il consueto equilibrio, Maria Teresa Russo subito dopo scende sul piano antropologico per analizzare la centralità del paziente attraverso una prospettiva dialogica. La corporeità è il primo step di questo dialogo perché l’uomo per la sua stessa natura entra in dialogo con gli altri sempre e solo a partire dalla sua corporeità. Il corpo dell’uomo è diafania di tutto il suo essere, delle sue emozioni e delle sue sofferenze, delle sue capacità e dei suoi limiti. Purtroppo negli ultimi decenni, le applicazioni della tecnologia alla medicina, accanto ad innegabili progressi, hanno prodotto un fenomeno inquietante: il declino della centralità del corpo nella relazione dialogica con il medico. Il ricorso sempre più frequente alle tecniche diagnostiche e l’incremento della strumentazione rischiano di sminuire l’importanza del corpo del malato, che può diventare un impersonale somma di sintomi, mentre invece è prima di tutto testimone espressivo dei vissuti personali di disagio e di malattia. La riflessione antropologica sul corpo malato può costituire uno strumento prezioso per la formazione del personale sanitario, anche come fondamento indispensabile della competenza psicologica. Grazie all’analisi fenomenologica dei vissuti del corpo malato, è possibile cogliere tutta la complessità delle esperienze corporee e ripensare la medicina come arte della cura di un corpo vivente e personale. Rilanciare il protagonismo della corporeità in questo focus sul paziente serve a dare un concreto realismo a tanti dibattiti, che troppo spesso scivolano verso forme ideologiche che generano conflitti ed incomprensioni scarsamente risolvibili. Il corpo del malato è l’alfabeto del medico che legge, interpreta e risponde ai suoi bisogni, sia a quelli espressi che a quelli inespressi ma ugualmente presenti nel libro del suo corpo. E lo fa intervenendo sempre sul corpo del malato.

Il passaggio successivo è segnato dalla riflessione clinica di Marco Trabucchi, che postula l’assoluta necessità di recuperare la visione unitaria del paziente, superando gli steccati tipici della medicina specialistica, che inevitabilmente induce a concentrarsi più sulla malattia che sul malato. Per questo occorre rilanciare, sia nell’attività di cura che nella formazione, la clinica medica, oggi ridotta un po’ ad un ruolo di cenerentola, mentre una volta era la vera e propria summa del sapere medico, vertice indiscusso verso il quale confluiva la stessa carriera dei professionisti più capaci e competenti. Oggi la clinica medica, con il suo sguardo ampio e profondo sembra aver ritrovato la sua ragion d’essere soprattutto nella geriatria, dove il fragile equilibrio dei pazienti esige una costante capacità di sintesi, sia in fase diagnostica che nel passaggio alla scelta delle terapie. La numerosità e la complessità dei problemi, sempre fortemente interdipendenti, posti dagli anziani-malati, richiede un approccio unitario, che non può essere delegato alla pluralità delle competenze degli specialisti. Ed è nel rapporto con l’anziano, così come accadeva nel rapporto con il bambino, che geriatra e pediatra percepiscono il valore irrinunciabile di un rapporto che sa ascoltare, valutare, e poi decidere. La fragilità del paziente non consente scorciatoie né deleghe di responsabilità, in questo caso l’etica della cura impegna tutta la responsabilità del medico, che deve imparare a sentire e a ragionare in modo empatico, per capire ciò che non si dice, per accogliere ciò che non si chiede.

L’anziano, il paziente cronico, il disabile chiedono alla medicina di farsi carico della loro autonomia ridotta, ma nello stesso tempo pretendono che si insegni loro a sfruttare nel miglior modo possibile le competenze residue. Tutta la cultura del bilancio di competenze è presente nei programmi di educazione terapeutica, per partire da ciò che il malato sa fare, aiutandolo a gestirsi al meglio delle sue possibilità. Anche questo è un modo concreto per riconoscere la sua dignità e metterla al centro del’attenzione dell’intero sistema sanitario. E di questo si occupa Silvia Manfrini nel capitolo successivo. Il potenziamento dei meccanismi di coping diventa sempre più necessario per ridefinire le modalità di cura davanti alla comparsa di nuovi eventi nella vita del malato cronico, sia anziano che disabile, e sarà l’intuito medico a valutare come va rilanciata la motivazione del paziente nel mantenimento della cura di sé. Ma l’educazione terapeutica richiede la disponibilità di una risorsa di cui sempre più spesso si lamenta la carenza: il tempo. Per la riuscita dell’azione educativa è di fondamentale importanza la disponibilità all’ascolto, non solo come atteggiamento interiore di accoglienza di ciò che l’altro è e dice, ma anche come disponibilità a parlare con il malato. Educare richiede tempo e non solo quello programmato dall’educatore ma soprattutto quello richiesto da ogni singola persona per capire, decidere e provare a fare. è necessario trovare la formula perché il tempo diventi l’alleato del processo educativo: come esistono momenti differenti nella storia di una malattia - o meglio nella storia di una persona con una malattia - esistono tempi diversi per affrontare e gestire la condizione particolare in cui si trova il malato senza doversi uniformare a standard precostituiti. I tempi del malato hanno un andamento che alterna disagio e adattamento, in modi diversi nelle diverse fasi della sua malattia, e si misura attraverso i cambiamenti della vita del paziente. I tempi del paziente sono una delle variabili essenziali con cui il medico deve fare i conti, per ottenere quella preziosa compliance che è parte integrante della terapia. Il medico darà valore al suo tempo dando tempo al malato considerato lui stesso come un valore.

E di questo si occupa Elena Colombetti riflettendo su quell’agire in scienza e coscienza che riflette un dovere per il medico e un diritto per il paziente. Anche se oggi si potrebbe legittimamente spostare i termini della questione per dire che l’agire in coscienza è un diritto per il medico, che in quanto tale deve difenderlo con energia e convinzione, e un dovere per il paziente, che non può trincerarsi solo dietro la difesa di diritti individuali. Il rischio che attualmente si presenta sempre più spesso è rappresentato dalla posizione di chi ritiene che non sarebbe la coscienza a dover regolare l’agire, ma una più o meno esplicitamente dichiarata adesione ad un modello contrattualistico in cui è l’accordo a sancire la giustezza, la legittimità e addirittura la doverosità dell’atto. È un approccio che a prima vista sembra garantire il rispetto dei soggetti coinvolti, anche perché mette in posizione centrale e fondante la volontà di entrambi. Non a caso si parla di modello contrattualistico. Per usare le parole di H. T. Engelhardt, uno dei più noti teorizzatori di questa posizione, il problema morale va formulato nei termini di "chi è d’accordo con chi per fare che cosa". La Colombetti fa notare come non si possa prescindere neanche in questo caso dal ruolo valutativo della coscienza, solo apparentemente eluso. Lo stesso accordo infatti, richiedendo l’assenso dei contraenti, presuppone da parte loro una valutazione che sfocia, appunto, nell’adesione a ciò che è oggetto dell’intesa. E se l’oggetto dell’intesa è la vita di una persona, allora è bene ricordare a medici e pazienti che non tutti gli accordi sono possibili, perché c’è a monte un impegno di ippocratica memoria già sottoscritto da parte del medico. E c’è un dovere del paziente verso se stesso.Di fatto nessun dovere il medico potrebbe assumersi nei confronti del paziente se questi non fosse il primo a riconoscere i doveri che ha nei suoi stessi confronti. In un’epoca caratterizzata dal dibattito sui diritti del paziente non si può passare sotto silenzio il grande dovere che il paziente ha nei suoi stessi confronti. C’è una dimensione etica della medicina che si articola proprio a partire da questo presupposto. A questo tende la riflessione di questo volume, quando considera la Medical Education nell’ottica e nella responsabilità formativa che il medico ha nei confronti del paziente. L’educazione medica non è solo scienza del come insegnare al paziente a prendersi cura di sé, non è solo scienza dei mezzi, ma è anche scienza dei fini e ha come obiettivo specifico insegnare al paziente a capire perché deve prendersi cura di sé.

Tutta questa parte del testo ha una profonda struttura etica che parte dalla libertà del paziente, su cui si concentra il Focus, e attraversa tutte le decisioni che è sollecitato a prendere nelle diverse fasi della sua vita, intorno alla sua vita e alla sua salute. Tra le scelte principali c’è la scelta del medico e del tipo di rapporto che vuole instaurare con lui, ma l’opzione fondamentale che è sollecitato a fare è quella per la vita, per la sua vita, nonostante gli inevitabili problemi con cui dovrà misurarsi. La medicina, i medici sono lì per aiutarlo in tutti i modi ad affrontare la malattia.

La terza parte del volume concentra la sua attenzione su alcuni dei modelli di medicina attualmente prevalenti. Il focus sulla medicina ha dei confini molto concreti, anche questi frutto di una scelta precisa, che nasce dalla valutazione dei modelli in auge e dei problemi che in parte creano e in parte risolvono. Walter Ricciardi e Bruno Dallapiccola affrontano il tema della medicina predittiva che sembra dischiudere tante opportunità nel campo della diagnostica precoce, anche se attualmente alla potenzialità diagnostica non corrisponde ancora una effettiva capacità di intervento terapeutico, per cui un sapere così fortemente anticipatorio può creare più angosce che speranze, più timori che prospettive. Ma l’aspetto forse più interessante su cui gli autori riflettono è dato dalla falsa sicurezza sugli eventi che si creeranno, in questo caso in termini di malattia, basata su di una altrettanto falsa teoria sul determinismo biologico. Troppo spesso si tralascia che non solo si tratta di dati probabilistici, ma che comunque la possibilità di esprimersi dei fattori genetici dipenderà in gran parte anche dal contesto e dall’ambiente che si verrà a creare. Il ricorso sempre più frequenta ai test genetici da un lato si ricollega a quella medicina dei desideri che chiede alla scienza di garantire il diritto ad avere un figlio sano, dall’altro deve fare costantemente i conti con i limiti della scienza a cui si affida. Oggi sono disponibili solo alcuni kit diagnostici, -acquistabili su internet senza nessuna particolare precauzione, a conferma che si tratta solo di un grande business- che consentono di diagnosticare, sempre in via probabilistica solo alcune patologie. Quelle attualmente messe a punto dalla scienza e dalla tecnica. Senza un counseling genetico adeguato le informazioni del Kit possono essere deflagranti e possono nuocere senza curare affatto. Nulla si dice dei rischi potenziali legati alla infinita possibilità di contrarre altre malattie con gli anni, per cui la selezione iniziale, perché di questo in fondo si tratta, appare parziale oltre che eticamente non accettabile. Ma un approccio diagnostico si giustifica sostanzialmente in funzione di un approccio terapeutico e quando per assurdo la diagnosi si dovesse risolvere in un’antiterapia, allora potrebbe venire meno la sua stessa ragione fondativa. Cesare Scandellari, partendo dal metodo probabilistico e dai diversi gradi di certezza scientifica, si ferma a riflettere sulla medicina clinica e sulla necessità di mantenere il giusto equilibrio tra un approccio patient centered e un approccio desease centered. La centralità del paziente e delle sue esigenze sul piano relazionale, con le evidenti ricadute sotto il profilo terapeutico, non possono far tralasciare il bisogno di un aggiornamento scientifico mirato, a seconda della specialità e dello specialista. Se è vero che una medicina eccessivamente frastagliata non consente di garantire al paziente la sua centralità, una competenza troppo generica non consente neppure di assicurare al paziente i giusti livelli di competenza necessari per una cura efficace. L’errore in medicina è sempre meno giustificato e la medicina difensiva sta diventando una delle preoccupazioni maggiori sia a livello personale del medico, sia delle istituzioni che delle assicurazioni. I costi dell’errore sono sempre più alti, sia in termini personali e sociali, che sul piano organizzativo ed economico.

Di questo si occupa Giacomo Delvecchio nel suo bel capitolo su "Errore, medicina e sanità". Parlando di medicina difensiva ne analizza le due facce, complementari anche quando a prima vista appaiono assai diverse tra di loro. Nell’una il medico potrebbe essere indotto ad astenersi da una prestazione che considera rischiosa per il malato e, indirettamente, anche per sé, specie se questa non arreca un beneficio immediato a chi soffre. È una scelta di tipo omissivo di cui è difficile stimare i costi, anche perché si associa ad un beneficio sociale che prende la forma di un concreto ed immediato risparmio per la funzione sanitaria. Sul piano personale il medico, nel dubbio, sembra attenersi al principio eticamente rilevante del "Neminem non ledere". Nell’altra variante, più frequente, il medico sceglie di fare tutto il possibile, perfino il superfluo per evitare di dover risarcire un domani i costi di qualcosa che qualcuno potrebbe imputare ad un suo possibile errore. Prende corpo in tal modo la medicina difensiva prescrittiva di tante consulenze, di molte indagini e di tanti farmaci somministrati non per una concreta efficacia diagnostica o terapeutica, quanto piuttosto allo scopo di "mettere le mani avanti". Il medico si vuole tutelare, e con lui ogni altro operatore sanitario, anche se ciò comporta un consumo immotivato di beni, spreco di risorse ed incremento ingiustificato dei costi. Calcolare l’entità e il corrispettivo degli errori medici e il loro costo individuale e sociale non è facile, sia che si tratti di una omissione che di un intervento eccessivo. La medicina difensiva costituisce un forte deterrente ad evitare di commettere errori che possano essere imputati al medico o alla struttura in cui si opera, ma non sempre si ispira ad una maggiore e migliore capacità di tutelare il malato e i suoi diritti. Rivela piuttosto una medicina malata, insicura, che non ha ancora trovato un modo appropriato ai tempi per rilanciare l’alleanza terapeutica con il malato.

Luci ed ombre della medicina attuale affiorano anche nel capitolo di Luca Borghi, che partendo dai forti sviluppi tecnologici su cui la medicina può contare, evidenzia anche l’assoluto bisogno di umanizzare la tecnologia usata al servizio dell’uomo. La sua proposta culturale è quella di puntare su vere e proprie technical humanities, che facciano da contrappeso ad una medicina sempre più High-Tech, e ai cambiamenti epistemologici da essa favoriti. L’uso della tecnologia in medicina ha rappresentato sicuramente una conquista molto importante che ha permesso di elevare l’aspettativa di vita, di abbassare i tassi di mortalità e di morbilità e di migliorare la qualità di vita dei pazienti che necessitano di cure palliative o riabilitative. Tale uso, al tempo stesso, ha modificato sensibilmente la pratica medica ed ha quindi posto nuovi problemi, ha fatto emergere nuovi elementi di discussione in merito all’agire di tutti gli operatori sanitari (dilemmi etici), cominciando dall’allocazione di risorse via via sempre più scarse a livello di micro - meso- e macro-economia. L’autore affronta quello che in questo nuovo modello di medicina è stato uno dei primi dilemmi di tipo etico, per quanto celato sotto le vesti di un problema economico: definire i criteri d’accesso ai trattamenti high-tech ovvero come allocare risorse sanitarie scarse. O detto in altro modo come decidere quali pazienti hanno diritto a determinati trattamenti e quali no, in che modo affrontare le cronicità che la stessa tecnologia favorisce, nel momento in cui cura solo parzialmente alcune patologie, senza guarire stabilmente i malati che ne soffrono. Borghi analizza l’Health Technology Assessment (HTA), un processo analitico-decisionale strutturato e multidimensionale di analisi e di decisione il cui scopo è la valutazione, secondo un approccio e una metodologia multidisciplinare, dell’impiego delle tecnologie per supportare razionalmente le decisioni di politica sanitaria, stante la limitata disponibilità di risorse finanziarie. Occorre sviluppare, anche grazie alle technical humanities, una nuova sensibilità che contribuisca a far maturare una prospettiva etica che eviti di assumere una visione riduzionista sia del corpo del malato sia dei suoi problemi.

Se si vuole umanizzare la tecnologia, allora il ricorso alla Medicina narrativa come indispensabile fattore di integrazione e di complemento diventa sempre più necessario, nella relazione di cura e nella formazione del medico e degli infermieri. È quanto sostiene Franca Parizzi nel suo capitolo. La Medicina narrativa non è una nuova moda, ma la riscoperta e la ri-affermazione del ruolo e del compito primario del medico: la "cura". Un compito ben più vasto e complesso della diagnosi e della terapia, perché implica ascolto, attenzione, rispetto, solidarietà, condivisione, partecipazione, empatia. Tutti questi aspetti non interessano soltanto la sfera relazionale, ma incidono anche profondamente sull’accettazione della malattia da parte dei pazienti, sul loro modo di viverla e di affrontarla, sulla condivisione e sulla partecipazione consapevole e responsabile al progetto di cura. Prestare attenzione alle storie che i pazienti raccontano è il solo modo per collocarli e comprenderli nel loro specifico contesto ed è parte integrante e determinante della cura. Diventano allora mezzi e modi importanti per definire meglio un nuovo paradigma della medicina anche il cinema, la letteratura, le storie vere raccontate e scritte da persone malate, molte di queste pubblicate sui siti web delle Associazioni di malati. Contribuiscono a creare quell’insieme di Medical Humanities che offrono uno straordinario archivio di casi clinici e umani, di situazioni, comportamenti, competenze, dal quale attingere esempi di grande valore pedagogico. Offrono la possibilità di osservare i comportamenti, di valutare le conseguenze di azioni o parole, di immedesimarsi o di contrapporsi, mantenendo quella distanza emotiva che permette l’analisi e l’elaborazione dell’esperienza. Le storie rappresentano anche validi strumenti formativi utili per realizzare obiettivi di apprendimento specifico nella formazione alla comunicazione e alla relazione con il paziente, sia per gli studenti che per i medici più esperti.

Augusto Panà chiude questa terza parte affrontando il tema della salute pubblica con i nuovi problemi che pone sul piano economico e organizzativo a chi vuole ripensare, in chiave realistica ed innovativa al tempo stesso, il paradigma della medicina. Individuare i nuovi criteri, a cui attenersi in questo campo diventa sempre più complesso, come mostra la gestione altamente problematica delle risorse in sanità. Ma il tema economico non è qualcosa di estrinseco rispetto al modello-medicina, ne costituisce parte integrante, come un vero e proprio fattore di salute: lo dimostrano i livelli di salute e gli indicatore della qualità di vita nelle regioni a bilancio sano e in quelle a bilancio in rosso. Nessuno possiede ricette sicure per contenere costi che hanno raggiunto proporzioni enormi in tutte le Regioni e hanno portato alcune di queste sull’orlo di un tracollo finanziario che non può più essere ignorato. Attese più lunghe, rischi più elevati, strutture fatiscenti, servizi limitati al punto di non poter garantire neppure i LEA: tutto ciò fa della malasanità pubblica un rischio concreto per la salute dei cittadini. Il rapporto tra Etica ed economia in sanità pubblica pone interrogativi stringenti a tutte le parti in causa, è come un sasso gettato in uno stagno che provoca cerchi di malessere sempre più allargati, fino a coinvolgere tutti i livelli di gestione politico-economica di un paese. La spirale inizia a livello dell’Azienda sanitaria, giunge agli assessorati regionali: sanità e bilancio, arriva alla Conferenza Stato-Regioni, per rimbalzare sul Ministero del Lavoro, della Salute e del Welfare fino a quello dell’Economia. Muove risorse economiche sempre più ingenti, distrae capitali da un obiettivo all’altro, si confronta con situazioni ai limiti della corruzione, come confermano molti degli scandali più recenti… In un contesto in cui la confusione, l’improvvisazione e la mancanza di trasparenza hanno dominato il dibattito, non solo a livello politico, ma in parte anche tra i "tecnici" o i ritenuti tali, Panà fornisce un contributo chiaro sulle modalità con cui la sanità pubblica sta diventando sempre più essenziale nella rappresentazione del nuovo paradigma di cui ha bisogno la medicina. La trasparenza amministrativa diventa un fattore di salute, la competenza gestionale acquista un potere curante anche rispetto alle patologie più diffuse, la lotta agli sprechi potrebbe guarire una nuova forma di obesità-burocratico-amministrativa. Ma a Panà non sfugge, proprio in chiave di educazione medica, che non è neppure possibile soddisfare tutte le richieste di coloro che, sull’onda della medicina dei desideri, ritengono di poter ottenere in modo gratuito cose che esulano dai livelli essenziali di assistenza. Non basta che una cosa possa essere collegata al bene-salute perché diventi un diritto, serve un nuovo livello di responsabilità sociale in sanità. Altrimenti le conseguenze più gravi si riverbereranno sempre sulla qualità di cura che i pazienti più in difficoltà riceveranno nella concretezza dei loro bisogni. L’ultima parte di questo numero della Rivista infine è dedicata al medico: il focus sul medico è in realtà un focus sulla formazione del medico e se ne occupano quattro persone di consolidata esperienza non solo sul piano nazionale! Luciano Vettore, autore di un famoso core curriculum strutturato sui livelli essenziali di apprendimento per gli studenti della facoltà di medicina, ripensa il curriculum di studi della facoltà, alla luce delle recenti esperienze didattico-formative. Giuseppe Familiari lancia una sua proposta per selezionare i futuri medici e ripensare l’attuale esame di ammissione. Si tratta di una proposta ampiamente condivisa non solo a livello della Conferenza dei Presidenti di Consiglio di Corso di Laurea, ma anche del CUN, come confermano le firme prestigiose dell’articolo da lui presentato. Victor Tambone affronta il tema della formazione continua dei medici, ponendo attenzione soprattutto alle nuove sfide di carattere etico-antropologico con cui sempre più ci si dovrà misurare. In ogni articolo l’analisi critica dei diversi problemi, senza essere pessimistica, invita ad una presa di coscienza concreta e realistica. Dice Vettore: "Solo teoricamente - anche se certamente in misura maggiore di un tempo - lo studente è posto al centro del processi formativi e ciò perché i docenti continuano a difendere strenuamente la loro appartenenza disciplinare, affermando la preminenza della propria disciplina sulle altre. I corsi continuano a non integrarsi, sia a livello d’insegnamento, sia nei momenti di valutazione: in molte realtà ogni docente tiene il suo corso e fa il suo esame. Ogni docente decide in piena autonomia cosa imporre ai propri studenti, resta così difficile la distinzione tra contenuti essenziali e accessori dell’insegnamento. I programmi dei corsi continuano nella sostanza a essere elenchi di argomenti da imparare, anche quando vengono "travestiti" da obiettivi formativi, e di conseguenza l’applicazione del "core curriculum" resta spesso soltanto una buona intenzione". Il pessimismo di Vettore è solo apparente e riflette invece la speranza che le cose cambino sulla scia di una didattica meno improvvisata, ma saldamente ancorata ai principi della Best Evidence Medical Education. Una educazione medica scientificamente coerente con i valori fondati dal suo statuto pedagogico.

Ma sarà possibile raggiungere risultati migliori nella formazione solo se selezioneremo meglio gli studenti, facendone davvero dei protagonisti capaci di sognare e di realizzare una medicina migliore dell’attuale. Per questo non bastano i test e Familiari fa una ricerca bibliografica precisa e puntuale su quanto si fa in Europa, per individuare i tratti canonici che dovrebbero essere selezionati in uno studente "modello". Cita McManus (2005): Intelligence, learning style and motivation, communicative ability e conscientiousness; Maastrict (1999): la buona capacità di contatto umano, una buona capacità al lavoro di gruppo, l’abilità ad analizzare e risolvere problemi, l’abilità ad acquisire autonomamente e valutare criticamente le informazioni e l’abilità ad acquisire nuove conoscenze. E più recentemente Kennet C. Calman (2007), che inverte la piramide dei criteri di selezione, partendo dalle "caratteristiche di un professionista" poste come base della selezione degli studenti: il ritorno alla professione medica vissuta come una vocazione, il desiderio di imparare e di intraprendere un continuo aggiornamento professionale, il rispetto della vita umana e delle persone, il desiderio di cura, compassione, rispetto dei pazienti ed empatia, il sapersi attenere all’etica in ogni circostanza, interessarsi alla salute così come alla malattia, l’abilità di comunicazione, il coraggio per prendere decisioni difficili, e molte altre qualità analizzate nel suo articolo. Un itinerario ben lontano dall’attuale semplificazione che seleziona i futuri medici con novanta domande a scelta multipla.

Per Tambone infine la Formazione Continua in medicina deve affrontare tre sfide principali: la prima riguarda la capacità di ripensarsi, ed organizzarsi, in modo sistemico svincolandosi da un nefasto processo di burocratizzazione. è la sfida della governance, della partecipazione democratica di tutti gli addetti ai lavori ai processi decisionali, che li riguardano mantenendo il proprio ruolo, ma imparando ad interfacciarsi sempre meglio con gli altri. La seconda sfida richiede la capacità di sapersi collocare all’interno della rivoluzione GNR, in modo critico e senza perdere la mission che la medicina ha nella società e davanti a ogni singolo malato. La sigla GNR sta per genetica, nanotecnologie e robotica, e analizza una nuova fase della storia dominata dalla Singolarità tecnologica nella quale l’Intelligenza Artificiale potrebbe autonomizzarsi dall’uomo, prendendo il sopravvento. Può apparire un’idea bizzarra, ma il fatto che qualche mese fa la NASA e Google abbiano investito un miliardo di dollari nella costituzione della "Singularity University" spinge a pensare che, forse, si tratta di un fenomeno che merita di essere seguito attentamente. La terza sfida infine è quella di formare alla prevenzione attraverso strategie che portino ad una conoscenza causale radicale della patologia e, pertanto, ad un approccio di tipo interdisciplinare o transdisciplinare. Quando la medicina ha dovuto affrontare pericoli gravi sapendo di non avere le armi, o le risorse, necessarie ha sempre individuato come gold standard assistenziale la prevenzione nelle sue diverse forme di realizzazione (primaria, secondaria o terziaria). Anche in questo caso, pur non rinunciando alla sua vocazione di ricerca, il gold standard appare per il futuro quello non tanto di impedire l’invecchiamento ma quello di prevenire al massimo le malattie degli anziani. In questo la FC ha una ulteriore sfida che, nei prossimi anni, acquisterà dimensioni e importanza inedite.

Mariapia Garavaglia chiude il numero rispondendo ad un quesito chiave per ogni malato: chi è oggi il buon medico e come si può valutare e forse misurare la qualità di un medico. Il buon medico dovrà essere competente come professionista e buono come persona, capace di cura e di com-passione nei confronti di chi soffre, ma anche determinato a combattere tutto il dolore possibile nel miglior modo possibile. Ma ciò che dovrà fare è ripensare il patto con il malato, la nuova alleanza terapeutica che la società gli richiede alla luce di valori forti e profondamente radicati nella sua coscienza. Tra questi c’è la necessità di uno studio serio, che gli consenta di non inseguire le mode, di non dare voce agli slogan, di avere un pensiero lungo che sappia vedere in profondità le conseguenze di decisioni che invece sembrano rispondere solo ad un impatto emotivo momentaneo. Sapere tornare senza paura alla tradizione umanistica della medicina, perché non c’è medicina senza umanità e questa sarà sempre la qualità che i malati capteranno prima e meglio e pretenderanno con insistenza da chi si prende cura di loro e dei loro familiari. Si tratta di un obiettivo cha ha forti implicazioni politiche, anche se la politica deve fare un passo indietro. In conclusione, sono proprio i nuovi grandi quesiti che toccano lo statuto della Medicina nel nostro tempo a reclamare nuovi livelli di conoscenza e di competenza nella formazione del medico. Per questo occorre aver ben presenti alcune coordinate, solo apparentemente indipendenti, ma certamente non scollegate tra loro.

  1. le nuove attese nei confronti della medicina e di una sua potenziale onnipotenza, che da un lato spinge a rimuovere il concetto di malattia fin dal momento della nascita, creando una nuova esigenza: il dovere di nascere sani ma, dall’altro si traduce in un crescente aumento del contenzioso medico legale, che esclude a priori i margini di errore del medico, pretendendo dal medico prestazioni efficaci ed efficienti anche quando non sono possibili.
  2. i nuovi parametri della relazione medico-paziente che fanno delle nuove tecnologie gli strumenti più potenti nelle aspettative di diagnosi e cura, ma anche dei distrattori formidabili nel rapporto interpersonale, che tende a sconfinare in un anonimato istituzionale sempre più invasivo ed ostile;
  3. e recenti riflessioni sul principio di autodeterminazione che hanno indotto a prestare particolare attenzione al diritto di rifiutare le cure mediche, modificando in profondità il senso della relazione con il medico, da medico curante o medico non curante, sollecitato ad accogliere la richiesta del paziente come nuova istanza etica del suo lavoro professionale;
  4. i crescenti limiti delle risorse disponibili sotto il profilo economico-finanziario che si sommano ai limiti organizzativo-gestionali, per cui i modelli assistenziali finora proposti si rivelano insoddisfacenti sia a livello individuale che istituzionale: In questa logica i problemi della formazione: del medico, ma anche del paziente, diventano strategici e acquistano una intrinseca dimensione etica, che va dalla logica del lavoro ben fatto, all’etica della relazione medico-paziente, fino a raggiungere i temi dell’etica della ricerca e dell’etica della valutazione. Per questo ragionare su come selezionare gli studenti all’ingresso e su come formarli negli anni universitari diventa essenziale non solo per creare le condizioni migliori per un ricambio generazionale, ma anche per avviare una revisione del paradigma della medicina il più possibile condiviso tra medici, pazienti e contesto sociale La domanda sempre più insistente oggi riguarda il nuovo profilo del medico, quello che richiedono i progressi della scienza e della tecnica, ma anche quello che richiedono i mutamenti sociali, i crescenti livelli di competenza raggiunti da molti pazienti e soprattutto una percezione sempre più forte e determinata del loro ruolo nel processo di diagnosi e cura. La domanda è quindi: di quale medico c’è bisogno oggi e quale medico vogliamo formare oggi per domani. C’è la consapevolezza che lo sviluppo delle conoscenze mediche e l’affinamento delle competenze tecniche si sia accompagnato ad un processo di specializzazione disciplinare che in alcuni casi è andato a detrimento dei processi di cura. Lo sviluppo delle technical & clinical skills ha messo in secondo piano lo sviluppo delle communication skills, creando una diversa forma di paternalismo medico, con una matrice di tipo aziendalistico. Sono nate nuove ed inedite difficoltà, accanto ad alcuni vantaggi di tipo organizzativo: ma non è ancora chiaro il bilancio tra i benefici perduti, in termini di qualità relazionale, e le nuove risorse attivate sul piano tecnologico. La relazione medico-paziente è andata evolvendo nella linea di un rapporto contrattualistico, basato sulla logica delle prestazioni, secondo il principio economico e funzionalistico dello scambio.

Dinanzi alla graduale spersonalizzazione del rapporto terapeutico, i medici, almeno alcuni di loro!, dopo aver cullato l’illusione di poter prescindere dalla soggettività del paziente, ormai sentono sempre di più l’esigenza di chiamare in causa la consapevolezza del paziente e la loro responsabilità. Il malato non accetta più di essere considerato come un semplice destinatario di decisioni protocollari e di gesti standardizzati. Rivendica il bisogno di capire, di essere informato, di essere assistito anche nei suoi bisogni emotivi e relazionali e, soprattutto riafferma il suo diritto a decidere, a scegliere tra le diverse opzioni di cura, valutando pro e contro con il medico, ma riservandosi l’ultima parola. Il medico è quindi sollecitato a riflettere continuamente sul sapere medico che occorre mettere in campo di volta in volta, partendo dall’incontro con l’esistenza singolare e irripetibile di ciascun paziente. Ognuno di loro va considerato non come un caso clinico da studiare e da risolvere, ma come una persona che soffre e che chiede aiuto, senza che la sua vulnerabilità e la sua dipendenza ne scalfiscano la dignità. In questa logica della cura diventa essenziale la disponibilità a tradurre la relazione di aiuto anche sul piano della formazione del paziente, spiegando le cose, utilizzando un linguaggio accessibile, mettendo in campo una profonda onestà intellettuale, necessaria per valutare e prospettare le alternative possibili. La pratica del consenso informato pone al medico precisi obiettivi sul piano dell’educazione del paziente, che diventa parte integrante del processo di cura.

Gli obiettivi di Medical Humanities sono tornati ad occupare un tempo e uno spazio importanti nel piano di formazione del medico, senza nulla togliere al rigore della formazione scientifica, ma evitando che questa diventi l’unico asse portante dell’intera struttura formativa. È necessario che il medico, proprio per essere miglior medico, torni ad essere anche doctor philosophiae, come è accaduto per molti secoli. Non può sottrarsi alle eterne domande che dietro il concetto di salute e malattia, di vita e di morte, pongono anche interrogativi sul bene e sul male, sul vero e sul falso. Sono domande che hanno assunto sfumature nuove col passare degli anni; presentano collocazioni epistemologiche complesse e richiedono un orizzonte sempre più vasto del sapere universitario, un ritorno al valore e al significato del stesso senso dell’Universitas. Impongono sia al medico che al filosofo, allo scienziato e al sociologo, di abbattere gli steccati delle loro discipline, per tornare a ragionare sull’uomo nella sua completezza. A tutti si richiede un sapere sapienziale che vada oltre i saperi disciplinari, che sia frutto di esperienza umana oltre che di conoscenza scientifica, e che aiuti a considerare l’uomo, soprattutto l’uomo malato, nella sua integrità, prendendo in considerazione tutti gli aspetti della sua vita, alla luce della profonda correlazione che c’è tra di loro. Lo stato di salute e di malattia, di benessere e di malessere, presenta in ognuno di noi sfumature diverse, che danno ragione della unicità e della irripetibilità di ogni uomo. Per questo il medico deve imparare a prestare attenzione non solo alla malattia del paziente, ma alla conoscenza di tutto l’uomo, alla sua storia personale, ai cambiamenti a cui è andato incontro nell’arco della sua vita e delle sue circostanze. Sono conoscenze preziose sia per fare la diagnosi, che per valutare la prognosi e scegliere la terapia. Il valore aggiunto di questo modo nuovo di guardare alla formazione del medico, è l’approccio "interdisciplinare", che non si limita a sommare una pluralità di apporti culturali, nati da settori disciplinari diversi, ma tenta un approccio transdisciplinare, per cui la pluralità dei contributi è costantemente rielaborata da ciascuno degli studiosi a livello personale.

L’educazione medica definisce un nuovo orizzonte di senso in cui si toccano e si interfacciano la soggettività del medico e quella del paziente, entrambi alla ricerca e alla conquista di un nuovo modo di intendere concetti come: malattia e salute, guarigione e cura, libertà e responsabilità. L’alleanza educativa che lega l’uno all’altro, perché non c’è dubbio che ognuno di loro sta sempre apprendendo qualcosa dall’altro e non potrebbe in nessun caso farne a meno, si trasforma gradatamente in alleanza terapeutica. Una alleanza che ha come obiettivo di fondo la cura perseguita fino al massimo livello possibile e che proprio per questo è capace di farsi nello stesso tempo prevenzione e riabilitazione. Una prevenzione che non sia radicalmente fondata su di una solida educazione che motivi la volontà del singolo e di intere popolazioni finirebbe col diventare mera coercizione: un insieme di regole scomode da aggirare quando è possibile e d’altra parte una riabilitazione che non si agganciasse a precise competenze che il paziente va sviluppando gradatamente non condurrebbe da nessuna parte. In un caso e nell’altro il primo obiettivo è fare in modo che il paziente voglia, perché solo così presterà attenzione alle informazioni e alle indicazioni che riceve. Il consenso in alcuni casi precede la stessa informazione, la rende intelligibile, le riconosce forza motivazionale e aiuta ad includerla nel proprio bagaglio di conoscenze e di competenze con grande libertà interiore: in scienza e coscienza, sia che si tratti del medico che del paziente.

Paola Binetti

 

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