EDITORIALE L'ARCO DI GIANO n° 62 - 2009

           
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Arco di Giano



La medicina di genere


N° 62 - inverno 2009



Differenze di genere


L’Arco di Giano continua la tradizione di affrontare argomenti di frontiera, allo scopo di creare fondamenta solide per gli atti di cura nelle aree grigie della medicina. Nella società di oggi le differenze di genere rappresentano una grande area grigia, anche se invece dovrebbero essere ovvio motivo di interesse per una scienza che si dice sempre più attenta all’individualità, anche considerando la dimensione della tematica. Così non è avvenuto in questi anni e molte della cause del ritardo sono discusse in questo dossier. Quanto vi è stato di ideologico rispetto a questa condizione (l’ideologia maschilista che non ritiene di valorizzare la femminilità perché irrilevante nello scenario umano e –all’opposto- l’ideologia femminista che in nome di un’eguaglianza da conquistare tendeva a cancellare le differenze) non è ancora stato chiarito. Anche sul versante scientifico però vi sono responsabilità non lievi. Basti pensare, ad esempio, alla mancanza di dati che permettano di comprendere le ragioni della maggiore spettanza di vita della donna alla nascita e in età avanzata, e, contemporaneamente, di una maggiore prevalenza di malattie e di perdita dell’autonomia. Sullo stesso piano si collocano interpretazioni errate (o parziali) dell’epidemiologia, che inducono, ad esempio, a sottovalutare le malattie cardiovascolari come determinanti importanti della salute della donna. Qualcuno –polemicamente, ma correttamente- è arrivato a dichiarare che il principale fattore di rischio di cardiopatia ischemica nella donna è la stessa sottovalutazione che ne viene fatta da parte degli ambienti scientifici e medici.

La cecità attorno a questo argomento ha portato a trascurare anche eventi di contorno, che però potranno evolvere in modo significativo nei prossimi anni. Mi riferisco, ad esempio, alla femminilizzazione della professione medica, un fenomeno che sta avvenendo con velocità inattesa e le cui conseguenze non vengono mai seriamente analizzate. L’università ha assistito nel giro di venti anni al mutamento radicale della popolazione studentesca nella facoltà di medicina e non si è posta la domanda se questo cambierà qualche cosa anche nella pratica della cura nei prossimi decenni. Normalmente questo problema si affronta soprattutto per quanto riguarda le risposte emotive della donna rispetto all’uomo e la capacità di relazionarsi del medico con il paziente; molto meno si è discusso su temi di grandissima importanza, che vanno dall’impegno fisico imposto da alcune specializzazioni fino alle differenti modalità cognitive e logiche rispetto all’analisi di un caso clinico.

Alle differenze di genere è necessario avvicinarsi con libertà e profondità, partendo dal riconoscimento della loro importanza, che però -per l’ apparente ovvietà-spesso non viene tenuta in considerazione. È necessario evitare che siano colonizzate da aspetti marginali o ideologici, dimenticandone invece la complessità che richiede un approccio prudente, che non trascura gli aspetti generali di ordine socio-culturale, ma allo stesso tempo si attiene, ove possibile, a quanto è scientificamente acclarato. Il tema delle differenze di genere è tipicamente all’interno della dialettica attuale tra medicina basata sulle evidenze e medicina narrativa, tra quanto indicato dagli studi condotti nei più avanzati centri di ricerca a livello internazionale e l’esperienza di tutti i giorni del medico e degli altri operatori sanitari (ma anche di chiunque si avvicini ad una persona ammalata). Lo stesso fenomeno della scarsa attenzione dedicata in questi anni alle differenze di genere testimonia le discontinuità tra il sentire diffuso, spesso non formalizzato, e le capacità della scienza di rispondervi in modo adeguato; uno dei mille gap del nostro tempo che confida a parole nella scienza, ma che difficilmente le affida un “lavoro preparatorio” rispetto alle grandi tematiche (è la conseguenza di una scarsa fiducia o la constatazione dell’incapacità ad affrontare tematiche del mondo reale, spesso difficilmente inquadrabili all’interno delle formalizzazioni di un modello scientifico, in particolare per quanto riguarda la medicina?).

Per contribuire all’approfondimento di una medicina che sia la sintesi organica tra l’approccio scientifico e quello del “mondo reale”, di seguito vengono riportati i risultati di uno studio condotto da un gruppo di medici italiani riguardante un argomento specifico, quello della clinica delle demenze. Lo scopo è trarre dall’analisi della prassi – anche se legata ad un tema limitato- indicazioni di carattere generale su come si sviluppa la cura nei due sessi, anche al fine di proporre osservazioni critiche che concorrano alla crescita di un dibattito sempre più indispensabile.

L’interesse suscitato dalle osservazioni sulla influenza del genere nell’epidemiologia e nella presentazione clinica della malattia di Alzheimer e, d’altra parte, la limitatezza e spesso discordanza dei dati disponibili, ha spinto l’Associazione Italiana di Psicogeriatria a condurre l’indagine della quale sono di seguito riportati alcuni risultati. A tale scopo è stato predisposto un questionario on-line al quale potevano accedere solo i soci, mediante un meccanismo di certificazione. I responders sono stati 652 (82% maschi, 63% geriatri, 27% neurologi e 10% psichiatri). Il 30% risultavano operanti nel territorio, il 54% in ospedale, il 6% in servizi di riabilitazione e il 10% in residenza per anziani. Nell’attività clinica quotidiana i soggetti con demenza rappresentano mediamente il 29% dei pazienti visitati; questi nel 4.1% hanno un’età inferiore a 64 anni, mentre nel 30.1% hanno un’età fra 65 e 74 anni, nel 45.5% fra 75 e 84 anni e nel 20.3% oltre gli 85 anni. Il 59.8% dei soggetti con demenza analizzati nel campione sono femmine, con un’età media di 78 anni.

Un iniziale dato significativo riguarda il tempo trascorso tra l’esordio dei sintomi e la prima visita specialistica in ragione del sesso. Le donne vengono valutate dallo specialista più tardivamente rispetto agli uomini; ad esempio, il tempo di attesa oltre i due anni è del 19.2% negli uomini e il 26.4% nelle donne. La tabella 1 presenta le modalità di invio del paziente dallo specialista in relazione al genere. Gli uomini vengono inviati nella maggioranza dei casi dalle mogli, mentre per le donne sono soprattutto i figli a ritenere necessaria una valutazione specialistica. Il medico di medicina

generale invia il paziente in misura simile sia che si tratti di uomini che di donne. La tabella 2 presenta i sintomi iniziali che determinano l’invio del paziente allo specialista. Si possono osservare alcune differenze significative; in particolare la disabilità è più frequente nelle donne rispetto agli uomini, mentre l’agitazione e il delirium vengono descritti più spesso fra gli uomini. La perdita di memoria è presente nella fase iniziale in eguale frequenza nei due sessi.

Rispetto agli elementi clinici rilevati alla prima visita si osserva che la disabilità funzionale è più frequente fra le donne (51.2% vs 18.6%), mentre tra gli uomini è più frequente una maggiore complessità di gestione domiciliare (62.8% vs 30.2%). Infine l’indagine mostra che non vi sono sostanziali differenze nella gestione clinica del paziente. Farmaci ad azione anticolinesterasica vengono prescritti alla prima visita in uguale misura fra gli uomini e le donne (70.7% vs 71.2%); simile è il rilievo di

una risposta clinica positiva dopo 6 mesi di trattamento (45.0% e 45.8% rispettivamente negli uomini e nelle donne), così come l’interruzione del trattamento per la comparsa di effetti collaterali (14.6% vs 15.8%). Il trattamento viene invece protratto per un tempo mediamente più lungo nei pazienti di sesso femminile (6.4±9.7 anni), rispetto a quelli di sesso maschile (5.8±9.3 anni), mentre non si rilevano differenze nella frequenza di prescrizione di neurolettici (rispettivamente 30.5% e 32.2% nei maschi e nelle femmine) e di trattamenti non farmacologici (38.3% e 39.7%).

Il numero di familiari coinvolti nell’assistenza al paziente sono simili quando si tratta di un maschio (1.7±0.7) o di una femmina (1.6±0.5), mentre l’introduzione di una badante è più frequente nei casi di paziente donna (38.9%) piuttosto che di un uomo (26.4%).

L’indagine, pur con i limiti intrinseci della metodica, fornisce informazioni che confermano l’importanza del genere nella definizione delle modalità di presentazione e di gestione della malattia di Alzheimer; permette anche una lettura significativa, che va oltre la specificità della condizione clinica osservata, rispetto all’influenza del genere nella pratica medica, in quell’area di confine dove si mescolano aspetti tipicamente legati alla condizione clinica, altri all’interpretazione che ne danno i medici, altri ancora all’attenzione di chi vive attorno alla persona affetta da demenza.

Un primo commento riguarda la differenza di genere rispetto alla tempestività dell’intervento specialistico dopo la comparsa dei primi sintomi. La donna vive in un ambiente che richiede minori prestazioni intellettive e interazioni sociali ed è protetta dall’ambiente famigliare; ciò si riflette negativamente sul suo “diritto” ad una diagnosi pari a quello dell’uomo. In questa prospettiva è interessante notare che l’uomo viene inviato dallo specialista soprattutto per l’intervento della moglie, una caregiver attenta e premurosa, mentre molto più raramente l’uomo esercita questa funzione, confermando le ben note caratteristiche di marginalità dell’azione di supporto esercitata dall’uomo all’interno della famiglia. La donna è invece “protetta” soprattutto dai figli, in particolare donne, che si fanno carico della sua condizione di salute. Una triste conferma deriva dal fatto che il medico di famiglia svolge un ruolo marginale rispetto ai pazienti dei due sessi, lasciando alle dinamiche famigliari l’intera responsabilità della conduzione del processo di cura.

Per quanto riguarda gli aspetti clinici, la donna, a parità di disturbo della memoria rispetto all’uomo, perde più facilmente autonomia, confermando un dato già largamente riportato sulla maggiore incidenza di disabilità, mentre nell’uomo prevalgono aspetti comportamentali. È noto infatti che di fronte ad una condizione clinica vissuta negativamente dall’uomo, questi risponde con alterazioni del comportamento come l’agitazione o la comparsa di uno stato confusionale acuto. Conseguenza di questo disagio è la difficoltà a gestire la vita in famiglia del maschio, che in presenza di una malattia non è in grado di adattarsi (evento che si verifica anche di fronte al ricorso ad una badante, che più frequentemente viene rifiutata da un anziano, incapace di adattamento alla convivenza con una persona non appartenente alla famiglia). Ciò conferma il fenomeno di una maggiore rigidità dell’uomo di fronte alle difficoltà che spesso si accompagnano all’età avanzata; ad esempio, dopo un evento profondamente stressante come una frattura di femore il maschio ha un rischio tre volte superiore rispetto alla donna di comparsa di depressione clinicamente rilevabile. L’apparente sicurezza “maschile” si infrange facilmente quando compare un evento che incide pesantemente sulle abitudini ed i ritmi di una vita sostanzialmente “protetta” (prevalentemente da parte di una partner).

È infine interessante notare che il genere non influisce sulle modalità di trattamento farmacologico delle demenze; il dato potrebbe essere interpretato ambiguamente come il segno della mancanza di attenzione da parte del curante rispetto alle differenze di espressione della malattia di Alzheimer, peraltro sempre rilevanti, ma soprattutto nelle fasi iniziali, quando l’ammalato inizia a capire il proprio stato di inadeguatezza rispetto ai compiti della vita (l’uomo soffre molto di più della donna per questa condizione, che lo vede senza protezione, perché è lui e lui solo a dover gestire le difficoltà, prevalentemente al di fuori della famiglia). La tematica dei farmaci si allaccia al dato della scarsa presenza del genere femminile negli studi clinici riguardanti nuove molecole. Ciò porta al paradosso per quanto riguarda le terapie per l’Alzheimer, ma largamente diffuso in medicina, di una maggiore prevalenza di utilizzo nella donna anziana, quando gli studi sono stati condotti soprattutto nell’uomo. Fino a quando saremo costretti a chiudere gli occhi di fronte a così palesi condizioni di ingiustizia? All’incapacità di collegare il dato di ricerca con quello di una clinica realistica, passando attraverso una mediazione attenta e intelligente, affidata a chi ha una sensibilità per i due versanti della realtà? Da un punto di vista più generale i dati suggeriscono anche che, poiché la donna vive più a lungo e sperimenta maggiori limitazioni funzionali rispetto all’uomo, il finanziamento e l’organizzazione delle cure diventerà argomento di rilevanza crescente. Con poche donne vecchie che potranno contare sul coniuge come caregiver primario, le stesse divengono dipendenti da caregiver informali (e non pagati), quali figli, amici, ecc.; inoltre avranno molto bisogno di servizi prestati dalla comunità e di servizi a pagamento. Allo stesso tempo –ed ancora per molti anni- le donne godono di pensioni inferiori rispetto all’uomo. Come si potranno conciliare questi fenomeni, se una società equilibrata vorrà continuare a supportare la condizione delle persone più fragili? Come è evidente anche da questo esempio, le differenze di genere che si evidenziano in ambito medico hanno spesso riflessi non secondari anche sulla vita sociale in generale. Molte altre potrebbero essere le tematiche da considerare rispetto alle differenze di genere; alcune vengono affrontate nei contributi di questo dossier. Sarebbe difficile farne un catalogo; ci auguriamo però che nel giro di pochi anni non si debba più ritenere utile un elenco delle differenze, perché queste diventeranno strutturalmente parte dell’atto clinico, in tutte le sue espressioni.

Marco Trabucchi

 

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