EDITORIALE L'ARCO DI GIANO n° 73 - 2012

           
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Salute e benessere. Un giusto stile di vita per stare bene


N° 73 - autunno 2012


 

L’obiettivo iniziale di questo numero avrebbe dovuto essere una lunga e articolata riflessione sugli stili di vita e sul loro ruolo come determinanti di salute, per cercare di capire in che modo si possa e si debba passare da un’ottica disease centered ad una health centered. Ai medici oggi si chiede di intervenire sulle malattie con uno sguardo lungo, per trasformare la diagnostica precoce, per molti decenni l’unica vera battaglia, in medicina preventiva e predittiva. Le ragioni per farlo sono tante: dalla tutela della qualità di vita delle persone al contenimento di costi che il SSN non è più in grado di affrontare. Le strategie per ottenere questo obiettivo possono essere tante. Tra tutte quella scelta con convinzione da tutti gli autori di questo numero de L’Arco di Giano c’è l’educazione alla salute. Un’educazione che va ben oltre la semplice informazione sui rischi e sui determinanti di salute, perché scende in profondità nella riflessione sullo stile di vita di ognuno di noi. Una scelta che impegna radicalmente libertà e responsabilità, ma che proprio per questo esige un salto di qualità nel livello della consapevolezza personale e sociale, politica ed economica.
Gli stili di vita che caratterizzano un Paese, un popolo, creano dei comportamenti a livello sociale che possono giovare più o meno alla salute delle persone e proprio per questo sono tutt’altro che irrilevanti per l’intero sistema economico del Paese, se si tiene conto che i bilanci regionali sono assorbiti per oltre l’80-85% dalla sanità. Ormai si tratta di costi al di fuori delle reali disponibilità regionali, per cui è diventato improcrastinabile il coinvolgimento delle persone nel prendersi cura di sé e dei propri familiari, con un costante e progressivo processo di empowerment. È un contributo diretto e concreto alla tutela della salute, non solo della propria, ma anche di quella degli altri e, in definitiva, della società intera, attraverso un’evidente forma di risparmio su costi che possono e debbono essere evitati. Obesità, tabagismo, mancanza di attività fisica, sono tra le cause di malattia più frequenti e nessuna di loro può essere curata se il paziente non lo vuole con fermezza, fin da quando è un cittadino sano, in buona forma fisica. Ma se sono note le cause di molte malattie, meno noti sono i fattori che contribuiscono a creare salute e benessere. Sappiamo perché ci si ammala, ma non sappiamo con altrettanta chiarezza e sicurezza come si può evitare di ammalarsi, stando bene e godendo di una migliore qualità di vita; il tutto con evidente risparmio di risorse pubbliche e private.

“Salute e benessere. Un giusto stile di vita per stare bene”, è quindi diventato il titolo di questo nuovo numero de L’Arco di Giano le cui caratteristiche possono risultare interessanti per almeno tre ragioni:
• il rovesciamento del paradigma di cura, che sposta il suo baricentro dal malato al sano, dalla malattia allo stato di salute, dal malessere al benessere (wellbeing), andando oltre il consueto approccio di una azione preventiva, per tradursi in vera e propria promozione della salute;
• il carattere fortemente interdisciplinare degli interventi che offrono una panoramica unitaria dei vari problemi, perché gli autori, nonostante le diverse specificità culturali, hanno cercato di armonizzare i rispettivi contributi con continui rimandi reciproci;
• la costante attenzione al coinvolgimento personale attraverso un processo di educazione che, mentre rispetta la libertà individuale si appella alla responsabilità sociale, per generare un crescente livello di consapevolezza in ognuna delle scelte intraprese.

Promozione della salute, approccio interdisciplinare e forte senso di responsabilità sono quindi le parole chiave di questo numero che per la sua stessa struttura si rivolge ad un pubblico molto vasto, perché è bene sottolineare che promuovere salute non è solo affar del medico. La famiglia combatte questa lotta benedetta stando in prima fila, collaborando con le scuole e con tutto l’associazionismo giovanile. Perché non si tratta di fare prediche ai giovani, e magari anche ai giovanissimi, sulla necessità di fare sport, di mangiare in modo più equilibrato, evitando i cibi spazzatura (junk food) o di assumere un atteggiamento proibizionistico e sanzionatorio nei confronti del fumo… Si tratta di offrire modelli positivi di adulti che sanno mangiare correttamente, fanno sport e non fumano. E nello stesso tempo diventa indispensabile offrire ai ragazzi una mensa scolastica che soddisfi in modo sano i loro gusti in un contesto in cui fare sport sia facile ed accessibile, sanamente competitivo, con un solido spirito di squadra, che aiuta a farsi degli amici, a non sentirsi soli. Crescere in salute, in altre parole, deve essere piacevole, divertente e non deve assumere quegli atteggiamenti minacciosi, a cui ci hanno abituato le scatole dei pacchetti di sigarette. Si tratta di promuovere la salute quindi come un bene da acquisire, più che come un male da evitare. Un bene prezioso e per questo costoso, soprattutto in un contesto culturale caratterizzato da una serie di cattive abitudini che vanno rimosse e sostituite da altrettante buone abitudini, funzionali ad un migliore standard di salute. Un discorso da fare ai giovani, fin da giovanissimi, sapendo però che gli interventi più importanti, e forse più urgenti, si collocano proprio intorno ai 40 anni. Non a caso si tratta di un’età simbolo per indicare il viraggio esistenziale in cui per alcuni i sogni faticano a farsi realtà, le responsabilità possono essere pressanti e sul piano affettivo si accumulano tensioni e delusioni: è quando ingrassare diventa più facile, fare sport forse meno divertente e il fumo costituisce insieme all’alcol una strategia di difesa dalla noia, dalla delusione e dallo stress. Stili di vita in netto ed evidente peggioramento.

L’assioma da cui siamo partiti, insieme agli autori che hanno contribuito alla realizzazione di questo volume, è che la salute richieda un forte impegno a livello personale, ma tutti dobbiamo sentirci coinvolti nello sforzo di sorreggere gli altri in un percorso in cui si può essere accompagnati, ma non coazionati, a compiere determinate scelte. C’è una mentalità piuttosto diffusa per cui lo scorrere della vita è in realtà un lungo e inarrestabile processo che conduce verso l’invecchiamento prima e la morte poi. Ovviamente passando per quell’età dell’oro che è la propria giovinezza, in cui c’è tempo e spazio per fare esperienze di ogni tipo, anche fortemente trasgressive. Gli autori invece affermano che la promozione della salute può essere una conquista continua, se si rispettano alcune regole del gioco, che non sono affatto dei limiti, ma dei veri e propri punti fermi a garanzia della qualità di vita propria e altrui.

Augusto Panà, con cui ho condiviso l’intera struttura di questo numero, riflettendo insieme in tutti i passaggi intermedi per cui è passato il volume, ha voluto porre come incipit del nostro ragionamento proprio questa rivoluzione copernicana. Insieme a Muzzi sostiene infatti che la principale innovazione della Sanità pubblica alla fine del 20° secolo è stata il Movimento della Promozione della salute formulato nella Carta di Ottawa del 1986. Il core concept del Movimento si può condensare in tre principi: 1. creare le condizioni essenziali (ambientali, culturali, sociali, economiche, ecc.) per favorire lo sviluppo della salute (to advocate); 2. permettere a tutte le persone di sviluppare la capacità, individuale e collettiva, di crescere in salute, dando loro maggior potere per farlo (to enable); 3. mediare tra i diversi interessi esistenti nella società, per favorire la promozione della salute (to mediate) in cinque aree di azione:

a) costruire una politica per la salute pubblica, al fine di assicurare che gli interventi sviluppati da tutti i settori della società siano orientati alla promozione della salute;
b) creare ambienti favorevoli alla salute (fisico, sociale, economico, spirituale, sociale), per garantire un impatto positivo sulla salute degli individui;
c) rafforzare l’azione della comunità, affinché abbia la capacità di prendere decisioni sul proprio stato di salute;
d) sviluppare le abilità personali, per mettere le persone in grado di acquisire conoscenze e capacità in merito alla propria salute e al proprio benessere;
e) ri-orientare i servizi sanitari, al fine di creare sistemi centrati sui bisogni della popolazione con una reale partnership tra i servizi e con gli utenti.

Panà e Muzzi, per sottolineare l’aspetto politico del loro intervento, sviluppano una serie di considerazioni glossando uno dei documenti del Ministero della salute che in questi ultimi 5 anni ha attraversato tre diversi governi, ricevendo ogni volta il massimo consenso da ognuno di loro. A conferma che si tratta di un tema ampiamente condiviso non solo tra i diversi schieramenti, ma anche tra governo tecnico e governi politici e soprattutto tra parecchi ministeri, interessati al tema a diverso titolo: “Guadagnare salute: rendere facili le scelte salutari” (DPCM 4/V/2007). L’affermazione “Guadagnare salute”, secondo i due autori, introduce una sottile divergenza rispetto alla più nota affermazione: “promozione della salute”. Introduce il senso di conquista, di impegno personale, di difficoltà da superare, di compiti da svolgere e di un premio da riscuotere: in questo caso, la salute. Per questo l’invito a “guadagnare” salute assume il significato di un impegno per aumentare la salute di cui già si gode, perché da un lato non è sufficiente il mantenimento della salute posseduta e dall’altro è infinitamente più complicato il recupero della salute persa.È una ipotesi affascinante ai limiti dell’utopia, ma è certamente una sfida fondamentale per il nostro SSN, ormai vicino al collasso economico e finanziario. Rappresenta una sfida anche per le nostre Facoltà di Medicina, sollecitate ad una revisione importante dei loro obiettivi di formazione e quindi dei loro piani di studio. L’insegnamento della Salute pubblica, tema prioritario ma non esclusivo degli studi medici, deve trovare proprio nel contesto accademico della Facoltà di Medicina la sua più forte spinta propulsiva, per ri-orientare scelte importanti che investono a tutto campo il mondo del lavoro e i suoi modelli organizzativi e produttivi. Il binomio lavoro e sicurezza necessita di una nuova e più efficace tutela, per non contrapporre diritto alla salute e diritto al lavoro, Etica ed Economia. Diritto e Medicina si trovano ad un crocevia in cui stili di vita individuali e collettivi reclamano un urgente sforzo di revisione.

Ivan Cavicchi dedica tutta la sua relazione a cercare di entrare nel merito del diritto alla salute, sancito dalla nostra Costituzione, all’art. 32, chiedendosi con martellante insistenza come si possano e si debbano definire sia il concetto di salute che il concetto di diritto alla salute, dal momento che la Costituzione non precisa affatto fino a che punto ci si possa o ci si debba curare. A Cavicchi piace parlare di “mistero salute”, come di qualcosa che ha dato filo da torcere anche all’interpretazione scientifica. In questi anni si sono alternate molte definizioni sulla salute, o meglio sullo “stato di salute”, dalle più riduttive come la famosa “assenza di malattia” (modello biomedico), alle più sofisticate come quelle dell’OMS, che fanno coincidere, a detta dell’autore, “salute” e paradiso terrestre (modello di natura socioculturale). Secondo Cavicchi quello che abbiamo sempre ritenuto scontato, non lo è affatto, né da un punto di vista giurisprudenziale, né da un punto di vista scientifico. Per i costituzionalisti infatti si tratta di chiarire che cosa effettivamente significhi parlare di “diritto alla salute” e se le affermazioni della norma debbano essere inquadrate più sul versante della “programmaticità” o su quello della “precettività”.

Anche per lui è necessario un lavoro di reinterpretazione dell’art 32 partendo dalla domanda sociale, che esige una rinnovata riflessione sul rapporto tra salute e lavoro, tra diritto alla salute e diritto al lavoro, attraverso una lettura integrata dei diversi articoli proposti dalla nostra Costituzione. Il diritto alla salute risente dei condizionamenti economici sulla sanità, resi ancor più drammatici da una serie di arretratezze anche culturali dell’intero sistema medico-sanitario, in particolare di tutto il settore della prevenzione primaria. Analizzando i dati offerti dall’epidemiologia sembra che oggi ci sia scarsa tutela della salute nella nostra società, anche perché si lascia poco spazio alla funzione di compensazione che dovrebbe svolgere la sanità pubblica. In sintesi, sostiene Cavicchi, il post-welfarismo non è solo il tempo del conflitto tra diritti e risorse ma anche quello tra una forte domanda sociale di salute e una restrizione drastica dei sistemi di sanità pubblica. E nella conclusione del suo articolo lancia un’ennesima provocazione, che potrebbe essere feconda di risultati preziosi in tanti campi, che vanno oltre la tutela della salute: la necessità di un aggiornamento del giusnaturalismo verso un orizzonte giuspersonalistico. Occorre rimettere al centro del discorso sulla salute la persona, quale soggetto attivo. Sarebbe un grande passo avanti, proprio perché permetterebbe di andare oltre l’idea tradizionale di tutela.

Simona Amato e Carla Collicelli partono dalla centralità della persona per sottolineare due linee di particolare interesse per l’approfondimento del tema: etica e psicopedagogia della salute, tra competenza e responsabilità, o se si preferisce con un linguaggio caro a Giovanni Paolo II, come dono e compito. Per entrambe si tratta però di trovare nuovi e più efficaci modelli di educazione alla salute dei cittadini, in tutte le loro fasce d’età.
Per la Collicelli, vicedirettore del CENSIS, da alcuni decenni si attribuiscono responsabilità sempre maggiori nella cura della salute ai diretti interessati, anche attraverso innovazioni come il consenso informato, oggi ritenuto un vincolo sociale ineludibile. In questo nuovo approccio l’esperienza della malattia non assume più un carattere prettamente incidentale, con la messa tra parentesi degli aspetti psicosociali, per concentrarsi sugli eventi di maggiore gravità. Al contrario l’esperienza della malattia viene considerata un’occasione significativa per ripensare la propria esistenza nella logica del proprio stile di vita. Questa trasformazione nasce dagli studi psico-sociali e dall’antropologia, attraverso il passaggio dalla concezione del demanding patient: il paziente che chiede, mosso da una certa ambivalenza tra autonomia e dipendenza verso il medico, a quella del challenging patient: il paziente che sfida. Il malato è figura centrale ed autonoma di un processo che vede da un lato la pluralizzazione delle figure di riferimento, dall’altro la necessità di un suo atteggiamento attivo nei confronti dell’informazione medica e della prevenzione, con le relative decisioni. Carla Collicelli conclude il suo contributo affermando che il passaggio dalla cultura della medicina alla cultura della salute ha contribuito all’affermarsi di un atteggiamento sempre più “proattivo” dell’utente, che passa dal ruolo di tradizionale paziente a quello di soggetto-utente, non solo perché dotato di precisi diritti, ma anche perché sempre più competente e partecipe lungo l’intero processo di guarigione. Oggi emerge con forza l’esigenza di costruire individualmente il proprio “spazio di salute”, non solo come stato di libertà dalle malattie, ma anche come spazio nel quale, attraverso una gerarchia di priorità, si possa realizzare una propria condizione di benessere.
Per Simona Amato lo stile di vita è un concetto psicologico che può essere definito come il modo di interpretare se stessi all’interno della realtà in cui si è naturalmente inseriti. Riflette chiaramente la propria soggettiva ed è ormai dimostrato che la modalità soggettiva con cui si vive la propria vita, pur essendo influenzata da numerosi fattori socio-economici, ha un impatto determinante sulla durata media della vita. Questo approccio introduce un nuovo concetto come qualificante e determinante della salute stessa: l’educazione del cittadino perché impari a mantenere la propria salute, eliminando dai propri comportamenti individuali quelli a rischio. Per questo motivo il ruolo dell’Educazione alla Salute diventa strategico e la pedagogia medica deve individuare nuovi obiettivi e strategie per rispondere alle esigenze di salute a livello individuale e sociale. La commissione dei determinanti sociali della Salute della OMS, nel 2007, ha pubblicato un documento nel quale si dimostra che i fattori socio-economici e gli stili di vita contribuiscono alla Salute per il 40-50%. Lo Stato e le condizioni dell’ambiente di vita e di lavoro per il 20-33%; l’eredità genetica per un 20-30%, ed i servizi sanitari per il restante 10-15%. Nel 2008 il Center for Disease Control and Prevention di Atlanta ha confermato per gli USA che lo stato di salute delle persone sarebbe condizionato per il 50% dai loro comportamenti e dal loro stile di vita, per il 20% dai fattori ambientali, per un ulteriore 20% dai fattori genetici e soltanto per il 10% dalla qualità della assistenza sanitaria.
Anche Maria Carla Claudi affronta il tema della integrazione tra le diverse politiche per la tutela della salute puntando sull’educazione alla salute di ciascun soggetto in particolare e della società nel suo complesso Due sono i suoi punti di riferimento: da un lato la carta di Nizza sui diritti fondamentali (2.12.2000) e dall’altra un recente Documento del Comitato nazionale di bioetica. Nella carta di Nizza si parla di protezione della salute all’art. 35, inserito nel IV cap. in cui si affrontano i diritti sociali nella prospettiva della solidarietà. L’articolo prevede che: “Ogni individuo ha diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche alle condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi nazionali. Nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana”. È un articolo che riprende affermazioni già contenute nel Trattato di Amsterdam e in quello di Maastricht del 1992 (titolo XIII, Sanità pubblica, articolo 152). In questi documenti il miglioramento della sanità pubblica è legato a strategie diverse tra di loro, che vanno dall’eliminazione delle fonti di pericolo per la salute umana, alla lotta contro i grandi flagelli, dalla ricerca sulle loro cause, alla informazione e all’educazione in materia sanitaria. Ancora una volta colpisce l’intensità e la forza del riferimento posto all’educazione medica, messa sullo stesso piano della prevenzione, della cura e della ricerca. Eppure in Italia siamo ancora lontani dal prestare a questo obiettivo l’attenzione che merita, per ragioni antropologiche: la centralità della persona, per ragioni giuridiche: il giuspersonalismo di Cavicchi, per ragioni etiche ed economiche.
È come se la pedagogia fosse considerata un sapere debole, schiacciato tra saperi accademici considerati come molto più forti, nonostante non siano ancora riusciti a sconfiggere un nemico tanto ostile quanto sottile e penetrante: l’ignoranza verso ciò che giova o nuoce alla nostra salute. In questa chiave l’intervento di Walter Ricciardi e del suo gruppo di ricerca colpisce per l’assoluta asciuttezza del linguaggio, il peso contundente delle sue cifre, e il tono decisamente ricattatorio che sembra assumere nei confronti dei renitenti alla formazione. Ovviamente tra i colpevoli al primo posto ci sono le Istituzioni, ma nessuno si può sottrarre al rimprovero denso di conseguenze che scaturisce dal suo contributo. “In considerazione dell’imponente mole di decessi causati dalle malattie croniche non trasmissibili e preso atto della possibilità di intervenire nell’ottica della prevenzione, diviene imprescindibile per i decision makers delle diverse nazioni prevedere azioni di controllo che possano ridurre non solo la mortalità ma anche la morbosità associata a tale gruppo di patologie”. Sono i politici, o i cosiddetti decision makers, coloro che debbono calcolare il “value of lost output”, l’indicatore che stima l’impatto di ogni decisione sulla crescita economica, ed ha stimato una perdita di 47.000 miliardi di dollari (sic!) nell’arco temporale 2010- 2030, pari al 75% del prodotto interno lordo del 2010. Il report, attraverso un approccio di “cost-of-illness” ha anche stimato il peso economico delle malattie croniche non trasmissibili con riferimento ai costi diretti sanitari e non sanitari e indiretti. E per questo lancia un appello alla prudenza e alla scelta di stili di vita sani sia a livello sociale che individuale.
Scelte di vita non salutari infatti coinvolgono in prima battuta l’individuo che sceglie di “non prevenire” e coloro che gli sono vicini. La scelta di non essere “prudenti” riguardo al proprio stile di vita può quindi trasformarsi, spesso improvvisamente e rapidamente, in un “dispiacere” non facilmente monetizzabile per il soggetto stesso e per le persone a lui care. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) inoltre fa riferimento a una terza tipologia di costi, oltre a quelli diretti e indiretti, i “nonfinancial welfare costs” - che comprendono il dolore, la sofferenza e la mortalità prematura. Questi costi, detti anche intangibili, né sono di tipo finanziario; ma nonostante non abbiano un ammontare monetario proprio, prevedono che le persone, e in generale la società, siano disposti a pagare qualcosa per evitarli, assegnandogli un valore. In questo senso, quindi, anche i costi intangibili possono essere stimati, sebbene con modelli e, conseguentemente, risultati piuttosto differenti. Tra i costi individuali della non prevenzione non dovrebbero essere trascurati quei costi intangibili che comunque pagano i familiari e le persone vicine al soggetto che sceglie uno stile di vita deliberatamente “non prudente”: ad esempio dalla mortalità prematura alla disabilità associata a incidenti stradali, dovuti a ad assunzione di alcol o sostanze psicotrope, ecc.
Ci sono costi infatti difficilmente monetizzabili, che sono totalmente a carico dei familiari, per esempio il tempo sottratto all’attività lavorativa (remunerata o non remunerata) o al tempo libero dei familiari o degli amici per l’assistenza al paziente e che incidono pesantemente sulla qualità di vita dei “caregiver”. I “caregiver” sono spesso “stressed and strapped”, ovvero psicologicamente stressati, e maggiormente soggetti ad alcuni dei comportamenti a rischio già citati.
Gavino Maciocco si pone il problema della promozione della salute attraverso l’educazione terapeutica, ma con uno sguardo particolarmente vigile sul rapporto tra disuguaglianze socio-economiche e stili di vita. Anche nel suo caso la premessa da cui parte è di carattere rigorosamente quantitativo. È stato dimostrato che con una dieta sana, una regolare attività fisica ed evitando l’uso del tabacco potrebbero essere evitati fino all’80% delle malattie coronariche, il 90% dei casi di diabete di tipo 2, e il 40% dei casi di tumori. Gli effetti degli stili di vita sullo stato di salute della popolazione sono tanto straordinari quanto inequivoci, a dimostrazione del fatto che nel destino di salute delle persone contano molto di più i comportamenti dei singoli che le influenze del patrimonio genetico. Ma ritenere che l’aderenza a un determinato stile di vita (e di conseguenza la probabilità di contrarre una determinata patologia) sia nient’altro che il frutto della libera e consapevole scelta dell’individuo è la banale semplificazione di un problema molto complesso. A testimoniare la complessità della questione sta la constatazione – già evidenziata - che i comportamenti nocivi per la salute si concentrano nelle fasce meno favorite della popolazione e che queste fasce sono le più colpite da alcuni tipi di malattie croniche. Il termine “meno favorite” non va inteso solo in senso economico, come se implicasse automaticamente livelli di povertà materiale, va letto in una chiave più ampia in cui la povertà a cui si fa riferimento è anche una povertà culturale, affettiva e relazionale. Non è semplice promuovere stili di vita salutari e ancor più difficile cercare di modificare i comportamenti francamente insalubri. Infatti, agli elementi soggettivi che inducono le persone a seguire stili di vita insalubri (condizioni di stress cronico, comportamenti compensativi, ecc.) si aggiungono i fattori di mercato che condizionano le scelte delle persone: la pubblicità, la moda e anche banali e spesso decisivi calcoli economici, ad esempio cibi ad alto contenuto calorico e basso contenuto nutritivo sono in generale più economici.

Educare alla salute quindi come strategia di riduzione dei costi e del miglioramento della qualità di vita e del lavoro di tutti: pazienti e loro familiari, professionisti dell’area della salute e politici: sembra un obiettivo facile da raggiungere stante la generale convergenza sul tema, eppure non è così. Michela Piredda e Maria Grazia De Marinis, docenti di Nursing di lungo corso sostengono che sebbene l’Educazione Terapeutica sia largamente riconosciuta come parte integrante della corretta gestione delle malattie croniche e sebbene molti sanitari abbiano già da tempo iniziato ad educare i loro pazienti, resta il fatto che non tutti sono consapevoli che le attività educative richiedono lo stesso rigore metodologico applicato alle pratiche diagnostiche o terapeutiche. Esiste, infatti, una differenza molto netta tra un’educazione di tipo “informale” e quella condotta secondo criteri e metodi pedagogici rigorosi (OMS 1998). Da una meta-analisi sull’efficacia dell’educazione del paziente, si evince che il 66% delle persone che hanno ricevuto un programma educativo pianificato ha avuto risultati migliori del gruppo di controllo che riceveva assistenza routinaria. Le due autrici si soffermano, sia pure rapidamente, sulla grande varietà dei criteri e metodi pedagogici che si possono seguire. Ma ciò che conta è un loro dominio rigoroso, che non abbia la leggerezza e la superficialità dell’improvvisazione, perché in questo caso avremmo risultati altrettanto fugaci e insoddisfacenti. Tra i modelli educativi citati c’è l’Health Belief Model (HBM), che si basa su tre premesse fondamentali: la percezione delle malattie, i fattori modificanti e la valutazione dei benefici. Oppure la Teoria della Dissonanza Cognitiva, sviluppata nell’ambito della psicologia sociale, sottolinea il bisogno di coerenza e il senso di disagio che una persona prova quando compie un’azione in contrasto con i suoi principi, come accade a chi continua a fumare pur conoscendo i danni che il fumo causa alla sua salute. Segnalano anche il modello di Auto-Efficacia, di stampo socio-comportamentista, basato sulla fiducia del soggetto nella propria abilità di fare e di mantenere cambiamenti e risultati positivi nella sua vita. L’Health Promotion Model, punta invece ad identificare i fattori principali che influiscono sull’adattamento del comportamento di promozione della salute, mettendo l’accento sul comportamento razionale ed economico. C’è poi il modello sviluppato da Green: PRECEDE (Predisposing, Reinforcing, and Enabling Causes in Educational Diagnosis and Evaluation) come metodo di pianificazione dell’educazione sanitaria. Sono tutte teorie che a diverso titolo fanno riferimento alle Teorie di Apprendimento dell’Adulto elaborate da Knowles nel 1980 in cui l’autore affermava che gli adulti sentono l’esigenza di sapere perché devono imparare e devono avere il controllo del loro apprendimento (essere auto-diretti) per potersi assumere la responsabilità delle loro decisioni.

Per concludere questo lungo editoriale, che vuole essere un filo conduttore per affrontare la lettura dei vari contributi senza disperdersi nella varietà e nella ricchezza delle osservazioni di ognuno degli autori, voglio citare, ultimo, ma non ultimo il contributo della antropologa Maria Teresa Russo. L’autrice parla della urgente necessità di giungere ad una pedagogia della salute, che sappia rivelare l’autentico carattere di bene relativo e relazionale della salute. Per scoprire «dove si nasconde la salute», occorre non interrogare la salute, ma la persona; è necessario avere una visione chiara di chi è l’essere umano e di qual è la sua realizzazione: è lo sfondo su cui collocare qualsiasi considerazione sulla salute e sulla malattia, che permetta di comprenderne il senso e non semplicemente di descriverne le prerogative. Solo nell’ottica di un’antropologia che riconosca la complessità e l’unità dell’essere umano, è possibile, infatti, cogliere il valore della salute e comprendere la distinzione tra stile di vita salutista e stile di vita salutare. La pedagogia della salute comporta necessariamente una pedagogia della libertà, che secondo la Russo è un apprendistato di terapia del desiderio. Occorre imparare a desiderare e imparare cosa desiderare: altrimenti il possesso di una libertà necessariamente finita e condizionata rischia di produrre una profonda frustrazione esistenziale. L’appuntamento inevitabile con il dolore e con la malattia, il cosiddetto «lato notturno della vita», secondo l’espressione di S. Sontag, rappresenta infatti l’appello a una libertà che non è semplicemente autodeterminazione, perché questa situazione imprevista non è stata oggetto di scelta, ma che si declina come libertà morale, più autentica della prima. Anche in una situazione di evidente limitazione come quella della malattia, si resta ancora capaci di, ossia si conserva la possibilità di volere e di amare, ad esempio nell’intenzione di assumere o meno il dolore come compito o nel cercare o meno la condivisione.

Il mio sforzo principale come editor di questo volume, insieme all’amico Panà, è stato quello di superare la frammentazione degli interventi per restituire sempre un filo di senso alla loro lettura, stimolando il lettore ad affrontare il testo con la mentalità di chi vuole capire meglio come guadagnare salute e migliorare la propria qualità di vita, costando meno al SSN, ma anche a se stessi e alla propria famiglia. E’ un invito rivolto ad un potenziale pubblico di lettori molto eterogeneo per interessi culturali e per responsabilità professionale. Ma credo che la sfida del testo vada letta anche nella prospettiva di un piccolo ma concreto contributo alla riflessione su cosa sia il bene comune: la salute è un bene comune, perché non è mai un bene solo individuale. Lo dimostra la prova contraria: ogni malattia è sempre contagiosa, nel senso che crea disagio e sofferenza a tutti coloro che assistono una persona cara, anche quando non ha nulla di infettivo. La salute quindi va vista come bene comune, mentre la sua mancanza va interpretata come sofferenza e disagio altrettanto comuni. Tutelare la salute, promuoverla, mettersi in condizione di guadagnare in salute sono altrettanti equivalenti di una parziale, ma concreta ricerca del bene comune.
Se andando avanti nella lettura qualcuno percepirà una certa fatica nella continua insistenza sull’educazione alla salute intesa come sintesi di libertà personale e di responsabilità sociale, vorrei ricordare che nel crocevia di ogni decisione umana c’è sempre una motivazione primordiale che spinge a cercare il bene. E credo che considerare la salute come bene e come bene da condividere possa rappresentare un aspetto motivazionale importante per dedicarsi alla sua tutela. Un approccio che personalmente preferisco a quello di marca strettamente economicistica, per cui dobbiamo assolutamente ridurre i costi della sanità perché non siamo più in grado di sostenerli. Quindi l’educazione alla salute dovrebbe rappresentare un investimento economico per non consumare risorse che non possediamo e soprattutto per non sottrarle a quei pazienti che si ammalano non per il loro cattivo stile di vita, ma perché comunque ci sono e sempre ci saranno! ragioni che sfuggono alla nostra possibilità di previsione e di determinazione.
Ma se tutti possiamo collaborare con gli altri per ridurre i costi e liberare risorse per chi non può assolutamente farne a meno, è pur vero che nessuno può essere sostituito nelle scelte discriminanti che definiscono il proprio stile di vita. C’è la diffusa convinzione che il rapporto tra bene e felicità sia strutturale, inscindibile. C’è sempre la speranza che la fatica si converta in un bene capace di garantire felicità. Davanti a scelte che riguardano la sua salute l’uomo può scegliere solo tra un bene percepito come tale e un altro bene; può sbagliarsi ma non può scegliere tra ciò che promette felicità e ciò che potrebbe procurargli un danno, perché nel momento in cui il danno si rendesse visibile si scatenerebbe una naturale reazione di rigetto e di fuga. Ma, come è evidente, nella valutazione del bene possibile o del danno conseguente l’uomo può sempre sbagliare e spesso sbaglia perché è stanco, confuso o stressato. Lo stress, dettato da mille cause diverse, rappresenta uno tra i principali fattori di rischio per la salute individuale e collettiva, anche a livello della propria capacità di valutazione del rischio e quindi delle decisioni da prendere. Ecco allora come ultima considerazione l’invito ad elaborare una filosofia di vita personale e professionale, in cui trovino la giusta collocazione la propria famiglia e i propri affetti, le proprie ambizioni e i propri sogni, i valori a cui si attribuisce un valore fondante nella propria esistenza. L’equilibrio personale crea salute, anche perché permette di affrontare meglio le difficoltà e le contraddizioni.
Questo è il senso del mio contributo personale nell’ambito del testo. La Medicina dopo aver cercato di anticipare sempre più la frontiera della diagnosi precoce, oggi è approdata alla consapevolezza che nulla è più efficace della promozione della salute. Protagonista di questa rivoluzione, che coinvolge l’intero sistema sanitario nazionale, però non è il medico ma il soggetto, ogni soggetto, nella sua specifica responsabilità e creatività. In questa chiave si può dire che di poche cose l’uomo è così direttamente responsabile come del suo stile di vita.
Lo stile di vita appare in definitiva come uno dei determinanti di salute a cui la scienza presta attenzione anche per il contributo che offre ad una efficace promozione della salute; ne fanno parte integrante quelle competenze che inducono comportamenti positivi di adattamento e permettono alla persona di far fronte efficacemente alle richieste e alle sfide della vita di tutti i giorni. Tra queste c’è anche la capacità di gestione dello stress, necessaria per sviluppare sensibilità verso le potenziali linee di frattura dell’equilibrio personale e per aiutare il soggetto a contenere di volta in volta i fattori di rischio che attentano alla sua salute.
La promozione della salute, la nuova e rivoluzionaria frontiera della prevenzione e della cura della malattia, inizia con uno stile di vita capace di porsi obiettivi coerenti con la ricerca del proprio benessere. Incoraggia ad assumere una filosofia di vita di cui siano parte integrante valori e comportamenti ispirati alla sobrietà e alla moderazione da un lato e alla solidarietà e alla collaborazione dell’altro. Il bisogno di appartenenza ad una comunità di affetti è più sano e fisiologico che non la tendenza ad accumulare risorse come difesa dall’ansia del futuro. La cultura del nostro tempo però preferisce investire in una competitività a tratti aspra ed aggressiva che, mentre insegue il successo, anche sul piano economico, logora velocemente l’equilibrio psico-fisico dell’uomo, rendendo più fragili i suoi legami nel contesto familiare e sociale e consegnandolo quindi ad un vissuto di solitudine e di abbandono che si può convertire in un fattore di rischio anche sul piano fisico. Occorre invertire questo ordine di precedenze e rimettere al primo posto ciò che garantendo serenità e sicurezza permette di affrontare anche gli aspetti difficili della vita, compresa la malattia, senza l’angoscia di essere abbandonato, permettendo invece di sperimentare la forza degli affetti che consolidano l’intima struttura relazionale dell’uomo.


di Paola Binetti

 

 

 

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