EDITORIALE L'ARCO DI GIANO n° 73 - 2012
INDICE | EDITORIALE | AUTORI |
Salute e benessere. Un giusto stile di vita per stare bene N° 73 - autunno 2012 |
L’obiettivo iniziale di questo numero avrebbe dovuto essere una lunga e articolata riflessione sugli stili di vita e sul loro ruolo come determinanti di salute, per cercare di capire in che modo si possa e si debba passare da un’ottica disease centered ad una health centered. Ai medici oggi si chiede di intervenire sulle malattie con uno sguardo lungo, per trasformare la diagnostica precoce, per molti decenni l’unica vera battaglia, in medicina preventiva e predittiva. Le ragioni per farlo sono tante: dalla tutela della qualità di vita delle persone al contenimento di costi che il SSN non è più in grado di affrontare. Le strategie per ottenere questo obiettivo possono essere tante. Tra tutte quella scelta con convinzione da tutti gli autori di questo numero de L’Arco di Giano c’è l’educazione alla salute. Un’educazione che va ben oltre la semplice informazione sui rischi e sui determinanti di salute, perché scende in profondità nella riflessione sullo stile di vita di ognuno di noi. Una scelta che impegna radicalmente libertà e responsabilità, ma che proprio per questo esige un salto di qualità nel livello della consapevolezza personale e sociale, politica ed economica. “Salute e benessere. Un giusto stile di vita per stare bene”, è quindi diventato il titolo di questo nuovo numero de L’Arco di Giano le cui caratteristiche possono risultare interessanti per almeno tre ragioni: Promozione della salute, approccio interdisciplinare e forte senso di responsabilità sono quindi le parole chiave di questo numero che per la sua stessa struttura si rivolge ad un pubblico molto vasto, perché è bene sottolineare che promuovere salute non è solo affar del medico. La famiglia combatte questa lotta benedetta stando in prima fila, collaborando con le scuole e con tutto l’associazionismo giovanile. Perché non si tratta di fare prediche ai giovani, e magari anche ai giovanissimi, sulla necessità di fare sport, di mangiare in modo più equilibrato, evitando i cibi spazzatura (junk food) o di assumere un atteggiamento proibizionistico e sanzionatorio nei confronti del fumo… Si tratta di offrire modelli positivi di adulti che sanno mangiare correttamente, fanno sport e non fumano. E nello stesso tempo diventa indispensabile offrire ai ragazzi una mensa scolastica che soddisfi in modo sano i loro gusti in un contesto in cui fare sport sia facile ed accessibile, sanamente competitivo, con un solido spirito di squadra, che aiuta a farsi degli amici, a non sentirsi soli. Crescere in salute, in altre parole, deve essere piacevole, divertente e non deve assumere quegli atteggiamenti minacciosi, a cui ci hanno abituato le scatole dei pacchetti di sigarette. Si tratta di promuovere la salute quindi come un bene da acquisire, più che come un male da evitare. Un bene prezioso e per questo costoso, soprattutto in un contesto culturale caratterizzato da una serie di cattive abitudini che vanno rimosse e sostituite da altrettante buone abitudini, funzionali ad un migliore standard di salute. Un discorso da fare ai giovani, fin da giovanissimi, sapendo però che gli interventi più importanti, e forse più urgenti, si collocano proprio intorno ai 40 anni. Non a caso si tratta di un’età simbolo per indicare il viraggio esistenziale in cui per alcuni i sogni faticano a farsi realtà, le responsabilità possono essere pressanti e sul piano affettivo si accumulano tensioni e delusioni: è quando ingrassare diventa più facile, fare sport forse meno divertente e il fumo costituisce insieme all’alcol una strategia di difesa dalla noia, dalla delusione e dallo stress. Stili di vita in netto ed evidente peggioramento. L’assioma da cui siamo partiti, insieme agli autori che hanno contribuito alla realizzazione di questo volume, è che la salute richieda un forte impegno a livello personale, ma tutti dobbiamo sentirci coinvolti nello sforzo di sorreggere gli altri in un percorso in cui si può essere accompagnati, ma non coazionati, a compiere determinate scelte. C’è una mentalità piuttosto diffusa per cui lo scorrere della vita è in realtà un lungo e inarrestabile processo che conduce verso l’invecchiamento prima e la morte poi. Ovviamente passando per quell’età dell’oro che è la propria giovinezza, in cui c’è tempo e spazio per fare esperienze di ogni tipo, anche fortemente trasgressive. Gli autori invece affermano che la promozione della salute può essere una conquista continua, se si rispettano alcune regole del gioco, che non sono affatto dei limiti, ma dei veri e propri punti fermi a garanzia della qualità di vita propria e altrui. Augusto Panà, con cui ho condiviso l’intera struttura di questo numero, riflettendo insieme in tutti i passaggi intermedi per cui è passato il volume, ha voluto porre come incipit del nostro ragionamento proprio questa rivoluzione copernicana. Insieme a Muzzi sostiene infatti che la principale innovazione della Sanità pubblica alla fine del 20° secolo è stata il Movimento della Promozione della salute formulato nella Carta di Ottawa del 1986. Il core concept del Movimento si può condensare in tre principi: 1. creare le condizioni essenziali (ambientali, culturali, sociali, economiche, ecc.) per favorire lo sviluppo della salute (to advocate); 2. permettere a tutte le persone di sviluppare la capacità, individuale e collettiva, di crescere in salute, dando loro maggior potere per farlo (to enable); 3. mediare tra i diversi interessi esistenti nella società, per favorire la promozione della salute (to mediate) in cinque aree di azione: a) costruire una politica per la salute pubblica, al fine di assicurare che gli interventi sviluppati da tutti i settori della società siano orientati alla promozione della salute; Panà e Muzzi, per sottolineare l’aspetto politico del loro intervento, sviluppano una serie di considerazioni glossando uno dei documenti del Ministero della salute che in questi ultimi 5 anni ha attraversato tre diversi governi, ricevendo ogni volta il massimo consenso da ognuno di loro. A conferma che si tratta di un tema ampiamente condiviso non solo tra i diversi schieramenti, ma anche tra governo tecnico e governi politici e soprattutto tra parecchi ministeri, interessati al tema a diverso titolo: “Guadagnare salute: rendere facili le scelte salutari” (DPCM 4/V/2007). L’affermazione “Guadagnare salute”, secondo i due autori, introduce una sottile divergenza rispetto alla più nota affermazione: “promozione della salute”. Introduce il senso di conquista, di impegno personale, di difficoltà da superare, di compiti da svolgere e di un premio da riscuotere: in questo caso, la salute. Per questo l’invito a “guadagnare” salute assume il significato di un impegno per aumentare la salute di cui già si gode, perché da un lato non è sufficiente il mantenimento della salute posseduta e dall’altro è infinitamente più complicato il recupero della salute persa.È una ipotesi affascinante ai limiti dell’utopia, ma è certamente una sfida fondamentale per il nostro SSN, ormai vicino al collasso economico e finanziario. Rappresenta una sfida anche per le nostre Facoltà di Medicina, sollecitate ad una revisione importante dei loro obiettivi di formazione e quindi dei loro piani di studio. L’insegnamento della Salute pubblica, tema prioritario ma non esclusivo degli studi medici, deve trovare proprio nel contesto accademico della Facoltà di Medicina la sua più forte spinta propulsiva, per ri-orientare scelte importanti che investono a tutto campo il mondo del lavoro e i suoi modelli organizzativi e produttivi. Il binomio lavoro e sicurezza necessita di una nuova e più efficace tutela, per non contrapporre diritto alla salute e diritto al lavoro, Etica ed Economia. Diritto e Medicina si trovano ad un crocevia in cui stili di vita individuali e collettivi reclamano un urgente sforzo di revisione. Ivan Cavicchi dedica tutta la sua relazione a cercare di entrare nel merito del diritto alla salute, sancito dalla nostra Costituzione, all’art. 32, chiedendosi con martellante insistenza come si possano e si debbano definire sia il concetto di salute che il concetto di diritto alla salute, dal momento che la Costituzione non precisa affatto fino a che punto ci si possa o ci si debba curare. A Cavicchi piace parlare di “mistero salute”, come di qualcosa che ha dato filo da torcere anche all’interpretazione scientifica. In questi anni si sono alternate molte definizioni sulla salute, o meglio sullo “stato di salute”, dalle più riduttive come la famosa “assenza di malattia” (modello biomedico), alle più sofisticate come quelle dell’OMS, che fanno coincidere, a detta dell’autore, “salute” e paradiso terrestre (modello di natura socioculturale). Secondo Cavicchi quello che abbiamo sempre ritenuto scontato, non lo è affatto, né da un punto di vista giurisprudenziale, né da un punto di vista scientifico. Per i costituzionalisti infatti si tratta di chiarire che cosa effettivamente significhi parlare di “diritto alla salute” e se le affermazioni della norma debbano essere inquadrate più sul versante della “programmaticità” o su quello della “precettività”. Anche per lui è necessario un lavoro di reinterpretazione dell’art 32 partendo dalla domanda sociale, che esige una rinnovata riflessione sul rapporto tra salute e lavoro, tra diritto alla salute e diritto al lavoro, attraverso una lettura integrata dei diversi articoli proposti dalla nostra Costituzione. Il diritto alla salute risente dei condizionamenti economici sulla sanità, resi ancor più drammatici da una serie di arretratezze anche culturali dell’intero sistema medico-sanitario, in particolare di tutto il settore della prevenzione primaria. Analizzando i dati offerti dall’epidemiologia sembra che oggi ci sia scarsa tutela della salute nella nostra società, anche perché si lascia poco spazio alla funzione di compensazione che dovrebbe svolgere la sanità pubblica. In sintesi, sostiene Cavicchi, il post-welfarismo non è solo il tempo del conflitto tra diritti e risorse ma anche quello tra una forte domanda sociale di salute e una restrizione drastica dei sistemi di sanità pubblica. E nella conclusione del suo articolo lancia un’ennesima provocazione, che potrebbe essere feconda di risultati preziosi in tanti campi, che vanno oltre la tutela della salute: la necessità di un aggiornamento del giusnaturalismo verso un orizzonte giuspersonalistico. Occorre rimettere al centro del discorso sulla salute la persona, quale soggetto attivo. Sarebbe un grande passo avanti, proprio perché permetterebbe di andare oltre l’idea tradizionale di tutela. Simona Amato e Carla Collicelli partono dalla centralità della persona per sottolineare due linee di particolare interesse per l’approfondimento del tema: etica e psicopedagogia della salute, tra competenza e responsabilità, o se si preferisce con un linguaggio caro a Giovanni Paolo II, come dono e compito. Per entrambe si tratta però di trovare nuovi e più efficaci modelli di educazione alla salute dei cittadini, in tutte le loro fasce d’età. Educare alla salute quindi come strategia di riduzione dei costi e del miglioramento della qualità di vita e del lavoro di tutti: pazienti e loro familiari, professionisti dell’area della salute e politici: sembra un obiettivo facile da raggiungere stante la generale convergenza sul tema, eppure non è così. Michela Piredda e Maria Grazia De Marinis, docenti di Nursing di lungo corso sostengono che sebbene l’Educazione Terapeutica sia largamente riconosciuta come parte integrante della corretta gestione delle malattie croniche e sebbene molti sanitari abbiano già da tempo iniziato ad educare i loro pazienti, resta il fatto che non tutti sono consapevoli che le attività educative richiedono lo stesso rigore metodologico applicato alle pratiche diagnostiche o terapeutiche. Esiste, infatti, una differenza molto netta tra un’educazione di tipo “informale” e quella condotta secondo criteri e metodi pedagogici rigorosi (OMS 1998). Da una meta-analisi sull’efficacia dell’educazione del paziente, si evince che il 66% delle persone che hanno ricevuto un programma educativo pianificato ha avuto risultati migliori del gruppo di controllo che riceveva assistenza routinaria. Le due autrici si soffermano, sia pure rapidamente, sulla grande varietà dei criteri e metodi pedagogici che si possono seguire. Ma ciò che conta è un loro dominio rigoroso, che non abbia la leggerezza e la superficialità dell’improvvisazione, perché in questo caso avremmo risultati altrettanto fugaci e insoddisfacenti. Tra i modelli educativi citati c’è l’Health Belief Model (HBM), che si basa su tre premesse fondamentali: la percezione delle malattie, i fattori modificanti e la valutazione dei benefici. Oppure la Teoria della Dissonanza Cognitiva, sviluppata nell’ambito della psicologia sociale, sottolinea il bisogno di coerenza e il senso di disagio che una persona prova quando compie un’azione in contrasto con i suoi principi, come accade a chi continua a fumare pur conoscendo i danni che il fumo causa alla sua salute. Segnalano anche il modello di Auto-Efficacia, di stampo socio-comportamentista, basato sulla fiducia del soggetto nella propria abilità di fare e di mantenere cambiamenti e risultati positivi nella sua vita. L’Health Promotion Model, punta invece ad identificare i fattori principali che influiscono sull’adattamento del comportamento di promozione della salute, mettendo l’accento sul comportamento razionale ed economico. C’è poi il modello sviluppato da Green: PRECEDE (Predisposing, Reinforcing, and Enabling Causes in Educational Diagnosis and Evaluation) come metodo di pianificazione dell’educazione sanitaria. Sono tutte teorie che a diverso titolo fanno riferimento alle Teorie di Apprendimento dell’Adulto elaborate da Knowles nel 1980 in cui l’autore affermava che gli adulti sentono l’esigenza di sapere perché devono imparare e devono avere il controllo del loro apprendimento (essere auto-diretti) per potersi assumere la responsabilità delle loro decisioni. Per concludere questo lungo editoriale, che vuole essere un filo conduttore per affrontare la lettura dei vari contributi senza disperdersi nella varietà e nella ricchezza delle osservazioni di ognuno degli autori, voglio citare, ultimo, ma non ultimo il contributo della antropologa Maria Teresa Russo. L’autrice parla della urgente necessità di giungere ad una pedagogia della salute, che sappia rivelare l’autentico carattere di bene relativo e relazionale della salute. Per scoprire «dove si nasconde la salute», occorre non interrogare la salute, ma la persona; è necessario avere una visione chiara di chi è l’essere umano e di qual è la sua realizzazione: è lo sfondo su cui collocare qualsiasi considerazione sulla salute e sulla malattia, che permetta di comprenderne il senso e non semplicemente di descriverne le prerogative. Solo nell’ottica di un’antropologia che riconosca la complessità e l’unità dell’essere umano, è possibile, infatti, cogliere il valore della salute e comprendere la distinzione tra stile di vita salutista e stile di vita salutare. La pedagogia della salute comporta necessariamente una pedagogia della libertà, che secondo la Russo è un apprendistato di terapia del desiderio. Occorre imparare a desiderare e imparare cosa desiderare: altrimenti il possesso di una libertà necessariamente finita e condizionata rischia di produrre una profonda frustrazione esistenziale. L’appuntamento inevitabile con il dolore e con la malattia, il cosiddetto «lato notturno della vita», secondo l’espressione di S. Sontag, rappresenta infatti l’appello a una libertà che non è semplicemente autodeterminazione, perché questa situazione imprevista non è stata oggetto di scelta, ma che si declina come libertà morale, più autentica della prima. Anche in una situazione di evidente limitazione come quella della malattia, si resta ancora capaci di, ossia si conserva la possibilità di volere e di amare, ad esempio nell’intenzione di assumere o meno il dolore come compito o nel cercare o meno la condivisione. Il mio sforzo principale come editor di questo volume, insieme all’amico Panà, è stato quello di superare la frammentazione degli interventi per restituire sempre un filo di senso alla loro lettura, stimolando il lettore ad affrontare il testo con la mentalità di chi vuole capire meglio come guadagnare salute e migliorare la propria qualità di vita, costando meno al SSN, ma anche a se stessi e alla propria famiglia. E’ un invito rivolto ad un potenziale pubblico di lettori molto eterogeneo per interessi culturali e per responsabilità professionale. Ma credo che la sfida del testo vada letta anche nella prospettiva di un piccolo ma concreto contributo alla riflessione su cosa sia il bene comune: la salute è un bene comune, perché non è mai un bene solo individuale. Lo dimostra la prova contraria: ogni malattia è sempre contagiosa, nel senso che crea disagio e sofferenza a tutti coloro che assistono una persona cara, anche quando non ha nulla di infettivo. La salute quindi va vista come bene comune, mentre la sua mancanza va interpretata come sofferenza e disagio altrettanto comuni. Tutelare la salute, promuoverla, mettersi in condizione di guadagnare in salute sono altrettanti equivalenti di una parziale, ma concreta ricerca del bene comune. |
di Paola Binetti |